Le primarie del Pd sono state estremamente utili non soltanto al Pd stesso, hanno avuto il valore aggiunto di produrre un certo aumento di fiducia verso la politica e i politici, nonché un’accelerazione del processo di disgregazione del Pdl.
Hanno prodotto anche un altro risultato positivo, restituire il dibattito politico televisivo alla dignità dell’antica Tribuna politica. Ma questo è un altro discorso, ancorché nient’affatto trascurabile.
L’idea delle primarie ha conosciuto una certa fortuna, seppure a momenti alterni, a partire da una precisa stagione storica, quegli anni Ottanta nei quali, dopo la crisi dei Settanta, si manifestava in pieno la crisi dei partiti e della politica tout-court.
Non è infatti stata tangentopoli a sfasciare i partiti politici usciti dalla seconda guerra mondiale e costruttori della democrazia italiana, ma loro stessi, gradualmente, nel quindicennio precedente. Di fronte a quello smarrimento, che portava i partiti a riprodurre stancamente e inesorabilmente le proprie strutture di potere interne, la parola d’ordine delle primarie assumeva la forza di una provocazione e di una rivendicazione tanto legittima quanto apparentemente capace di incidere nei meccanismi stessi del reclutamento dei gruppi dirigenti dei partiti e degli amministratori pubblici da questi espressi.
Vi era, in questo, l’idea di inserire elementi di democrazia diretta, nella convinzione che il pronunciamento popolare, quello sì, avrebbe avuto per sua stessa natura la forza, come per incanto, di spazzare via ad un tempo vecchi meccanismi burocratici e mestieranti della politica. Ciclicamente, contestualmente all’avanzare della crisi della politica, la tesi è stata riproposta, ora ammantata della magia di un lavacro palingenetico, tale da rifondare il rapporto tra cittadini e democrazia rappresentativa, ora investitura dal basso di leader capaci di riunificate la sinistra e/o di governare il Paese. Non si può negare che almeno in alcuni casi, le primarie hanno ottenuto un risultato di una certa efficacia. Da ultimo, appunto, il confronto tra alcune delle anime del centrosinistra, l’effetto a catena della maggiore credibilità dello schieramento stesso, lo scompiglio creato tra gli avversari.
E tuttavia, le primarie paiono uno strumento pretestuoso, monco e, ciò che forse è peggio, di breve momento. Inoltre, rischiano di configurarsi come gesto di indulgenza, se non di accondiscendenza, verso un’onda plebiscitaria; una strizzatina d’occhio alla demagogia populista. Nella migliore delle ipotesi, si è trattato di un segno di attenzione verso i cittadini, tutto qui.
Ma a questo deve seguire la politica. I limiti delle primarie si vedono tutti nella loro applicazione alla scelta dei candidati per le elezioni parlamentari, occasione nella quale paiono aprire più problemi strutturali di quanti non ne risolvano sul piano tattico.
Ad esempio, il plebiscito delle primarie per un candidato, seppure temperato da qualche modesto tentativo di perequazione come le “quote rosa”, è incapace di garantire un requisito schiettamente democratico, la tutela delle minoranze. Compito che invece compete al partito. Ovvero, compete alla regìa politica di un partito che sceglie i candidati sulla base di una visione d’insieme su questioni strategiche come quale gruppo parlamentare si intende andare a comporre sulla base delle competenze necessarie, sulla base del rispetto e della partecipazione delle diverse componenti ideali, culturali e politiche che caratterizzano la vita di partito e che tutte devono essere rappresentate.
Ora, ipotizziamo che la maggioranza dei votanti alle primarie del Pd sia di provenienza Ds, di area bersaniana, di cultura politica prevalentemente socialdemocratica post comunista, di ispirazione laica. Ebbene tra i candidati parlamentari scelti non sarebbero rappresentati, coloro che provengono dalla Margherita, le diverse anime moderate e le diverse anime di sinistra, le culture politiche liberal-democratiche e democratico-radicali, i cattolici, le altre ispirazioni religiose.
Sarebbe stato questo il risultato voluto? Evidentemente, no. Ma a chi compete decidere gli equilibri, le rappresentanze, le libertà di espressione se non a un partito democratico solidamente strutturato? Altrimenti, è automatico il rischio della demagogia per ottenere un vantaggio in una guerra di tutti contro tutti. Perché se bisogna essere plebiscitati per poter fare politica, bisogna di necessità essere visibili, dunque spendere denaro in campagne promozionali e inondare la rete di proclami, per loro natura non complessi come è la realtà, ma semplificatori e volti a raccogliere un consenso immediato. Oppure, si recita la commedia di false primarie: in cambio di un debole rischio che non venga nominato qualcuno dei predestinati, si decide effettivamente in altra sede chi potrà presentarsi e dovrà essere scelto.
In una parola, la fiducia verso la politica non si ricostruisce con dosi massicce di primarie, ma ricostruendo partiti aperti e responsabili, partecipati e trasparenti, rappresentativi di istanze sociali e di culture politiche. Tutto il resto non sono che palliativi, più o meno pasticciati.