Dunque Monti parteciperà alle prossime elezioni, nelle forme di cui sapremo nei prossimi giorni. D’Alema l’ha detto alla sua maniera un po’ ruvida (“moralmente discutibile”), ma indubbiamente il capo del governo “tecnico” verrà meno al patto – trasparente, alla luce del sole, inequivocabile – sottoscritto con il presidente della Repubblica, il Pd e “obtorto collo” Berlusconi. Doveva rimanere al di sopra delle parti e, ovviamente, non avrebbe sfruttato l’incarico ricevuto per imporsi come attore politico e partitico. Per Monti, già compensato con la nomina a senatore a vita, aveva preso corpo peraltro la prospettiva – garantita in particolare dal partito che giungeva super-favorito dai consensi popolari alla scadenza elettorale – di un ruolo autorevole e incisivo nella regolare ripresa della vita democratica, come super-ministro dell’economia o, più probabilmente, come presidente della Repubblica. Anche a garanzia dei suoi preoccupati sponsor dell’Europa politica e della finanzia internazionale.
Invece Monti scende in campo. E tanto vale prenderne atto. Si tratta di un evento, comunque lo si valuti, destinato in una misura o nell’altra, in tempi brevi o lunghi, a trasformare se non a rivoluzionare l’assetto politico-partitico italiano, come d’altra parte si poteva anche immaginare sin dalla nascita del “governo tecnico” (vedi “Ma almeno Monti consente la ripartenza”, Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2011).
Al di là delle intenzioni dei protagonisti di questi eventi, a cominciare dallo stesso Monti, c’è da chiedersi se, per strade tortuose, non possa venirne fuori quel processo di scomposizione-ricomposizione del sistema politico italiano di cui la gran parte degli italiani sentiva e sente la profonda esigenza, che in molti politici e partiti hanno via via auspicato e mai concretamente promosso, e che il caso-Berlusconi, lo stesso caso-governo tecnico e la sequela di scandali venuti alla luce ripropongono in termini di urgenza e di radicalità.
Chi, in particolare, ha sempre considerato un grave vulnus alla nostra democrazia la pretesa di ingessarla in un forzato bipolarismo non può non individuare una opportunità di virtuosa innovazione nelle condizioni in cui avviene la “discesa in campo” di Monti e soprattutto nelle sue possibili conseguenze.
Basti accennare alle preoccupazioni che esse hanno giustamente ingenerato ai vertici del Pd – che pure è il partito più solido rimasto in campo, forse l’unico “non personale” e “non proprietario”, e per questo il più democratico (nomen omen) – che temono una ricaduta esplosiva dell’iniziativa montiana sulle imminenti elezioni, verso le quali ormai marciavano quasi come una “gioiosa macchina da guerra”.
Ma se Monti riuscisse veramente a mettere in piedi un Partito Popolare, in coerente collegamento col Ppe, isolando a destra i “populisti” (berlusconiani e leghisti), federando i centristi e attirando anche quelli oggi militanti in altri partiti, compreso il Pd, metterebbe solo a nudo un errore storico (o coazione a ripetere?) commesso dagli ex-Pci. Dopo la caduta del Muro – e la testimonianza e le straordinaria azione autoriformatrice di Berlinguer – ci si poteva aspettare che gli ex-comunisti, riconoscendo e facendo tesoro degli antichi abbagli, guardassero al Partito Socialista Europeo. Invece si chiamarono Partito democratico di sinistra e oggi si chiamano Partito democratico, avendo eliminato anche ogni riferimento esplicito alla sinistra (“per mimetizzarsi meglio”, direbbero i vecchi anti-comunisti), volendo inglobare (“egemonizzare”) anche gli orfani democristiani “popolari” e inventandosi un partito di centrosinistra. Aggiungendo anomalia ad anomalie, nel Paese delle anomalie, e caricandosi di tutte le contraddizioni e i contrasti che tuttora l’attraversano.
Ora, se Monti riuscisse nell’impresa di mettere in piedi il Pp italiano – che Casini e Montezemolo, per una serie di ragioni, non sono riusciti a compiere e mai compiranno – si registreranno inevitabili ricadute alla sua destra e alla sua sinistra.
Insomma, la strada è certamente tortuosa, ma la meta può essere luminosa: destra radicale e populista, Pp, Ps e sinistra radicale. E chi avrà più filo da tessere, tesserà.