Una frase enigmatica, sussurrata attraverso il citofono che lo metteva in comunicazione con il figlio, in ascolto dall’altra parte dello spesso vetro divisorio durante un colloquio in carcere. Qualcuno, all’interno della sua cella, vorrebbe fare del male a Bernardo Provenzano. A comunicarlo al figlio Francesco Paolo, sarebbe stato lo stesso padrino di Corleone durante un colloquio all’interno del penitenziario di Parma, dove è detenuto in regime di 41 bis.
“Papà non ci sta con la testa e noi non siamo in grado di capire se dicesse sul serio o se sragionasse” ha detto il secondogenito del boss mafioso. Ma quella frase, impressa nel sistema di registrazione del carcere emiliano, ha destato l’interesse della procura di Palermo. È per questo che Francesco Paolo Provenzano è stato convocato in procura, dove è arrivato accompagnato dal suo legale Rosalba Di Gregorio, per poi essere interrogato per quasi due ore dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dal sostituto Antonino Di Matteo.
I due pm palermitani lo hanno ascoltato in qualità di testimone, e quindi senza avvocato, all’interno del fascicolo modello 45 (ovvero quello previsto per i fatti non costituenti reato) aperto nel giugno scorso sul presunto tentato suicidio del boss che ha sostituito Totò Riina alla guida di Cosa Nostra. Provenzano, parlando con il figlio durante un colloquio nel carcere di Parma, avrebbe fatto cenno a minacce fisiche subite dietro le sbarre. È per questo che oggi i magistrati cercano di far luce sulla reale origine di quella relazione di servizio in cui si raccontava di come il padrino venne sorpreso da un agente della polizia penitenziaria con un sacchetto di plastica in testa nel maggio scorso.
Il dipartimento di amministrazione penitenziaria si era espresso in maniera critica sull’accaduto, facendo addirittura cenno ad una simulazione. Pochi giorni prima Provenzano aveva ricevuto la visita dell’europarlamentare Sonia Alfano e del senatore Beppe Lumia, e in rapida successione degli ormai ex procuratori aggiunti Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci. In entrambi gli incontri il boss era stato invitato a pentirsi. “Ha l’unica occasione di ristabilire in parte la verità sul suo nome” fu l’invito che i magistrati fecero a Provenzano. Il boss però rifiutò di collaborare: “Per dire io la verità avissi a parrari male di cristiani, scusatemi”. L’interrogatorio davanti a Ingroia e De Francisci è stato nei giorni scorsi prodotto davanti al dottor Piergiorgio Morosini, giudice per l’indagine preliminare della Trattativa Stato – mafia, che l’ha decretato nullo vista l’assenza del difensore di Provenzano durante il colloquio con i pm.
In ogni caso dopo quegli incontri in carcere, sulla detenzione del padrino di Corleone sono state registrate una serie di anomalie: dal presunto tentato suicidio ad alcuni ricoveri in ospedale. L’avvocato e la famiglia di Provenzano hanno chiesto a più riprese perizie neurologiche per accertare lo stato di salute del boss. L’ultima istanza, dopo un paio di ricoveri dovuti ad un’eccessiva pressione arteriosa, è stata accettata durante l’udienza preliminare del processo sul patto occulto tra pezzi delle istituzioni e la mafia. I periti nominati dal gup Morosini si sono recati nel carcere parmense mercoledì scorso trovando Provenzano in discrete condizioni di salute.
Sabato, però, il boss è stato trovato con un ematoma alla testa. Condizione che ha richiesto un urgente intervento chirurgico per la rimozione dell’ematoma: attualmente il boss è ricoverato in stato di coma farmacologico all’interno dell’ospedale di Parma. “Il tentativo di suicidio? Non ricordo. Sia fatta la volontà di Dio, io non voglio fare del male a nessuno” aveva detto Provenzano durante l’interrogatorio con Ingroia e De Francisci. Già durante il periodo di detenzione presso il carcere di Terni, dove era stato recluso dopo l’arresto nei dintorni di Corleone l’11 aprile del 2006, si erano verificate stranezze sulla detenzione del boss corleonese. All’epoca sui giornali comparve la notizia di un alterco tra Provenzano e Giovanni Riina, secondogenito del capo dei capi, anche lui detenuto a Terni. “Questo sbirro qui l’hanno portato?” avrebbe detto Riina junior all’entrata di Provenzano nel carcere abruzzese. “Con una rapida chiamata ho subito verificato come quella notizia fosse destituita da ogni fondamento, ma si formò un vero e proprio carteggio sulla mia scrivania con richieste di trasferimento di Provenzano, che alla fine fu spostato da Terni” ha raccontato il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca al vertice del Dap, deponendo al processo contro gli alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu per la mancata cattura del boss corleonese nel 1995.
Durante la stessa deposizione Ardita ha anche fatto cenno all’esistenza di un protocollo tra il Dap e il Sisde: il “protocollo farfalla”, una specie di accordo segreto tra il dipartimento penitenziario e i servizi segreti per la gestione dei principali detenuti in regime di massima sicurezza, senza che rimanesse alcuna traccia nei registri carcerari. L’esistenza di questo patto segreto per la gestione da parte dell’intelligence dei detenuti al 41 bis non è mai fino ad ora stata dimostrata. È un fatto, però, come negli ultimi tempi sulla detenzione del boss che avrebbe condotto la trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra si è acceso un vero e proprio giallo dai contorni indecifrabili.