Ho da sempre a che fare con un roastbeef all’inglese avvolto nel mistero. Ma non vi preoccupate, tutto si risolve con la conoscenza di vicende assolutamente personali e familiari che ho deciso di confessarvi.
Nelle frequentazioni liceali di una villa fiorentina, la madre inglese di un compagno di classe, saputo che mia madre aveva accolto il figlio Peter con un fiorentinissimo rosbeef, volle replicare l’accoglienza invitandomi ad una cena, in via San Leonardo, che mi commosse per vari motivi.
Mia madre staffava un chilo e sei di un serratissimo scannello (noce di manzo) con un trito di aglio, rosmarino, salvia, scorsa di limone, sale e pepe, arrosticciolandolo poi in olio extra vergine per dieci minuti, concedendo ai due lati magri tre minuti di fuoco vivacissimo e quattro al lato rivestito dalla grassa pellicola della fascia esterna. Lì la cottura terminava sempre dopo aver sfumato dentro due bei bicchieri di vino rosso e togliendo la carne dal tegame dopo averla rigirata ripetutamente, per far sì che le molecole color nocciola dell’abbrustolatura concedessero colore all’untuoso sughetto che poi, da sempre, accompagna ogni fetta di questa delizia, dove al centro si sbriciola, di fetta in fetta, il profumatissimo trito che sporca, si fa per dire, tutto quel ben di Dio.
Patate fritte o arrosto erano e sono tuttora un obbligo familiare.
La madre di Peter era una Lady che pur priva di ogni snobberia non metteva piede, se non per impartire ordini, in quella meravigliosa cucina dalle cui finestre si vedeva tutta Firenze. Quella casa era motivo di stupito orgoglio di quella famiglia di sudditi molto vicini alla loro Regina, comandati dalla loro diplomazia a risiedere a Firenze.
Io, affascinato e altrettanto orgoglioso della mia città, mi ci trovavo benissimo, amico come ero diventato del primo “capellone” che avevo conosciuto nella mia vita.
Lì la loro governante keniota, di origine indiana, ci deliziava di meravigliosi e fumanti tè, che tutt’ora scandiscano la mia vita, nei numerosi pomeriggi passati fra quel pezzo di campagna che da Forte Belvedere si incunea fino al centro della mia città, mischiando da sempre ricchi e poveri, artigiani e antiquari, e altre cento categorie umane. Mai una volta che in quelle bellissime merende mancassero i loro stupefacenti biscotti al burro, o altre delizie come in quella sera che per cena mi fu servito il mio primo rostbeef all’inglese, fatto però dalla indio-keniota.
La madre di Peter aveva chiesto ed ottenuto dal loro macellaio una noce intera di un manzo ben allevato. Con sapienza era stata anch’essa arrosticciolata rapidamente con olio dei loro-nostri olivi, a cui aveva fatto aggiungere una generosissima dose di un burro giallo che si facevano arrivare dalla loro isola e a cui, per tradizione, aggiungevano due bei cucchiai di francesissima senape di Digione. Altro non mi fu saputo dire durante la cena, ma qualcosa non mi quadrava. E siccome anche se mia madre mi voleva dottore io tendevo già a quell’età ad attrezzarmi per diventare quel che poi sono diventato, andai, finita l’ottava enorme fetta, a ringraziare la vera cuoca di quel burrosissimo – in tutti i sensi – arrosto.
Con naturalezza e generosità tutta femminile, che mai trattiene alcuna informazione sui saperi alchemici del cucinare, quella bella e radiosa figura africana mi mostrò la miscela di curcuma e cumino che aveva aggiunto allo sfrigolare delle due untuosità, subito dopo la senape ed insieme al succo di un mezzo limone, usando come dosatore il solito cucchiaino da tè.
Provare per credere. Quel che era risultato fu una meraviglia. Ed ancora, in tutta la mia famiglia, ogni qualvolta ci facciamo un roastbeef, ci domandiamo, per repubblicana democrazia, se lo vogliamo all’inglese o alla fiorentina. In entrambi i casi le due sugagne vi faranno grati del nostro parlare.
Anche nel caso cedeste verso la monarchica e colonialista versione, non fatevi mancare, nell’accompagnarlo, di un generoso purè.