La lettura della Costituzione fatta da Roberto Benigni su Rai Uno ha certamente colmato un vuoto. Una prova di divulgazione civica in prima serata che è valsa all’attore toscano, ormai icona nazionale, apprezzamenti diffusi tra cui il nostro.   

Ascoltare i primi 12 articoli, i Princìpi fondamentali, è servito per ricordare le radici della Repubblica, il senso storico e politico che alimenta il patto sociale su cui si regge questo paese. Per questo abbiamo pensato di suggerire, a Benigni e alla Rai, un racconto centrato su quella parte della Costituzione incaricata di tradurre, in termini concreti e commestibili, i princìpi generali. Rileggendoli oggi, infatti, in particolare la parte dedicata ai “rapporti economici”, si nota quello che l’altra sera non abbiamo sentito: il distacco, a volte abissale, tra l’ambizione delle norme e la realtà quotidiana di milioni di persone. Tra la speranza generata dai costituenti e la disillusione respirata dai cittadini di oggi.   

L’articolo 35 , che apre il Titolo terzo, afferma, che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”. Eppure viviamo in anni in cui la limitazione dei diritti del lavoro sembra sia stata l’occupazione principale di tutta la politica. Una tutela di carta in cui, a fronte di circa 23 milioni di occupati, si trovano oltre 2 milioni di senza lavoro e 2,3 milioni di occupati che hanno un contratto a termine. Senza contare la sicurezza sul lavoro: nel 2011 si sono avuti 725 mila incidenti e 920 morti sul lavoro. La beffa maggiore, però, deriva dall’articolo 36 che garantisce a ogni lavoratore il “diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Secondo l’Istat, però, il livello medio delle retribuzioni italiane è di 1.300 euro al mese, di poco superiore alla soglia di povertà relativa fissata a 1.011,03 euro. Non è dunque casuale se, nel 2011, il 28,4% delle persone residenti in Italia sia definito, sempre dall’Istat, a rischio di povertà o esclusione sociale.   

Pagano doppio le donne che, secondo Costituzione, hanno “gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. Ma se la retribuzione media italiana è di 1.300 euro al mese, per le donne scende a 1.143 contro i 1.425 degli uomini. Il 25% in meno. “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, è scritto all’articolo 37 mentre oggi tra i contratti a tempo parziale, il 15,5% del totale, la percentuale delle donne sale al 29,3 contro il 5,9 degli uomini. “La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato” ma in Italia il lavoro minorile, sotto i 16 anni, è stimato in circa 300 mila bambini o ragazzi.   

L’elenco potrebbe continuare, ad esempio citando la condizione dei “cittadini inabili al lavoro” che dovrebbero avere tutti i mezzi per vivere. Solo che l’Inps fa sapere che l’importo medio della pensione di invalidità è di soli 547 euro, molto al di sotto della soglia di povertà. L’articolo 39 regola l’attività sindacale, che “è libera” e garantisce ai sindacati di “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti” ma ancora oggi, nel 2012, non esiste una legge sulla rappresentanza democratica che garantisca chi lavora.   

Anche l’iniziativa economica “è libera”, come prescrive l’articolo 41 che, subito dopo, sottolinea come non possa svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. I padroni dell’Ilva sembrano non averlo mai letto. Ma, soprattutto, non hanno mai trovato qualcuno che glielo facesse notare. Almeno fino all’intervento dei magistrati di Taranto, basato proprio sulla lettera della Costituzione. Quei magistrati sono stati presi d’assalto da tutti, parlamento e governo, proprio perché si sono permessi di ricordare che esiste “la più bella del mondo”. E per aver ricordato lo scarto tra la regola e la pratica, tra la Costituzione formale e quella “materiale”.

La vera anomalia italiana che merita di essere raccontata come Benigni sa fare.

Il Fatto Quotidiano, 20 Dicembre 2012

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