C’è, nel dirompente ritorno di Berlusconi sulla scena e in tv, questa cosa che inquieta. L’idea che lo Stato – inteso come la somma di diritti e doveri di una comunità – sia trasformato in un’entità di diritto privato.

Prendiamo “Il Giornale“, proprietà della famiglia Berlusconi, che dice: il cavaliere ha diritto a esser risarcito delle ore nelle quali non è andato in video perché per un anno non è andato, mentre Bersani, Renzi e Vendola – durante le primarie del centrosinistra – sono stati sempre in video. Le comparsate in tv come risarcimento danni in base a una norma di diritto privato che nessun legislatore ha mai scritto. Appunto.

Dire che Mr. B sia discriminato televisivamente è già un paradosso di per sé, lui portatore di un conflitto di interessi gigantesco nel settore e senza uguali nelle nazioni del G8, ma considerare un diritto da risarcire questo della presenza tv di un leader politico – proprietario di tre reti, giornali, case editrici e per 15 anni premier – fa ridere e piangere. Ed è il segno di un dibattito pubblico troppo impoverito, di un’informazione messa in un angoletto e di una comunità civile senza orgoglio e senza rispetto della propria libertà, del discrimine tra diritti e doveri.

Negli ultimi venti anni tutti gli italiani sono stati – volenti o nolenti – dietro questa storia e hanno considerato meritevole di un dibattito pubblico i “diritti” privati dell’ex premier. In fondo, i fatti privati (economici, giudiziari e perfino i comportamenti sessuali) di Mr. B sono stati al centro del voto del popolo sovrano, dell’attività degli organi di controllo giudiziario e di quelli che regolano i mercati, per non parlare dell’attività del Parlamento.

Ecco, a me questa storia della trasformazione di un diritto privato in oggetto di battaglia pubblica e collettiva che ritorna ogni volta che Mr. B torna in scena, fa pensare ad alcune parole del cavaliere del lavoro catanese Mario Rendo, uno dei più grandi e controversi costruttori edili italiani degli anni Ottanta che nella primavera del 1983 in un’intervista al quotidiano la Repubblica disse: “Perché non debbo occuparmi della nomina di un prefetto a Catania? Sono il primo contribuente qui e ho il diritto di farlo”.

Per capire quanto quella cultura si sia radicata e quanto abbia pesato nelle vicende collettive degli ultimi venti anni berlusconiani, bisogna capire il contesto. Il generale Dalla Chiesa era stato ucciso pochi mesi prima a Palermo, non dopo aver denunciato a Giorgio Bocca che “le quattro principale imprese catanesi, con il consenso della mafia, sono sbarcate a Palermo”, l’Italia scopriva che la mafia non era solo un problema di coppola e lupara perché non riguardava solo i siciliani e non era solo un problema di criminalità pura.

Rendo era sotto inchiesta per una mega evasione fiscale: in un ufficio della sua impresa in Toscana, erano state trovate delle “cartelline”  nelle quali, in modo e con pressioni trasversali su tutti i partiti, la sua impresa privata si occupava di incarichi pubblici, nomine di ministri, apparati dello Stato, appalti.

Certo che il cittadino Rendo si poteva occupare pubblicamente della nomina di un prefetto, ma non se era indagato per truffa ai danni dello Stato e se erano in corso indagini su collusioni mafiose della sua impresa. Non con pressioni occulte e metodi illegali.

Non se c’era il legittimo sospetto che quell’interessamento fosse legato al suo tentativo di aggiustare processi, come poi fu dimostrato che l’impresa Rendo facesse: il Csm e ilMinistero della Giustizia proveranno che un procuratore e un Pm – per questo trasferiti da Catania – postdatarono a penna i certificati di carichi penali pendenti sul cittadino Mario Rendo per permettergli di partecipare a gare d’appalto, eludendo la legge Rognoni-La Torre.

Perché ricordo quella vecchia storia?  Cosa c’entrano le cartelline Rendo con le comparsate tv di Mr. B? C’entrano e molto, sono uno dei piccoli, diffusi antecedenti del dramma della nostra vita pubblica degli ultimi 20 anni in Italia.

Essere il primo contribuente di una comunità non concede più diritti, versare le tasse in relazione al proprio reddito non è una concessione privata da mecenati ma è un dovere civile. Pagare molte tasse non concede comunque a nessuno il diritto di contare di più. Soprattutto se – come nel caso di Rendo – le tasse non le paghi tutte.

Ecco perché anche in questa storia di Mr. B non c’è niente di personale. In questo intreccio di interessi pubblici e privati sta il dramma italiano, speriamo finito, di un privato cittadino che giustifica i poco legittimi “fatti suoi” facendoli diventare problema pubblico e dibattito centrale in vista di elezioni decisive per il futuro del Paese.

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