“L’Egitto è un totale disastro. Avremmo dovuto sostenere Mubarak invece di gettarlo via come un cane”, scriveva il 12 dicembre scorso sul suo account twitter ufficiale Donald Trump. Chi se ne frega di quello che pensa e scrive Trump, verrebbe da dire d’istinto. Eppure il cinguettio del miliardario americano non è così insensato e, soprattutto, non può considerarsi intempestivo. Dal suo punto di vista, cioè quello di un rappresentante degli imprenditori più ricchi del mondo che intende conservare la sua posizione di privilegio ed i suoi profitti, l’Egitto è diventato un territorio poco ‘sicuro’. Deve aver pensato la stessa cosa anche Christine Lagarde, numero uno del Fondo Monetario Internazionale, quando alcuni giorni fa ha deciso di posticipare la concessione del prestito di 4,8 miliardi di dollari al governo egiziano.
E’ stata una doccia fredda per il governo di Morsi, che credeva di essere riuscito a rassicurare l’Fmi sulla sua stabilità, nonostante numerose forze politiche, rappresentanti della società civile e movimenti gli remassero decisamente contro. Significativa e non senza conseguenze pratiche, infatti, è stata la lettera inviata da queste forze politiche e sociali alla direzione del Fondo Monetario Internazionale, con cui denunciavano la mancanza di trasparenza dei negoziati (e quindi la loro sostanziale illegalità) e si dichiaravano fermamente contrari alle misure di austerità proposte, che, a loro dire, violerebbero ulteriormente i diritti sociali ed economici del popolo egiziano. Motivo per cui chiedevano al Fmi di tornarsene da dove era venuto. Evidentemente, la cura più che ventennale del Fmi e della Banca Mondiale, a cui è stato sottoposto l’Egitto – che, grazie ai piani strutturali di aggiustamento, ha portato alla privatizzazione dei settori industriali strategici del paese, allo smantellamento del sistema di welfare, alla crescita della povertà assoluta e relativa e, soprattutto, alla creazione di una disoccupazione di massa duratura, specie tra i giovani mediamente e altamente istruiti – non riesce a sedurre le forze politiche di sinistra, i movimenti, i sindacati indipendenti e la società civile egiziana.
Anche il primo turno delle votazioni sul referendum costituzionale, che ha visto prevalere il “sì” per il solo 51,7%, non riesce a rassicurare gli investitori esteri. Nel caso in cui tale risultato fosse confermato nel secondo round delle votazioni, si tratterebbe di un risultato del tutto insoddisfacente per gli interessi dei capitali esteri ed autoctoni, perché tale risultato non riuscirebbe a legittimare la nuova carta costituzionale a livello nazionale ed internazionale. Troppo netta la spaccatura nel paese e troppo fragile, dunque, il potere dell’attuale governo per assicurare la stabilità dei profitti di Trump & company. Nonostante la maggioranza islamista dell’assemblea costituente abbia cercato di limitare il più possibile le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori, garantendo nel contempo ampia libertà alle imprese e quasi una totale autonomia all’esercito, questo non basterà a far dormire serenamente Trump e Lagarde. E, a giudicare dalle loro ultime dichiarazioni, si può dire che lo abbiano capito. Rimpiangere Mubarak e la sua feroce dittatura significa esattamente questo.
Tutto ciò ci aiuta a comprendere almeno una cosa: l’Egitto sociale, l’Egitto delle proteste e degli scioperi è vivo, forte ed in grado di condizionare, se non proprio di far saltare, i tavoli in cui si decide del suo destino. Continuano, infatti, ogni giorno le lotte studentesche e gli scioperi dei lavoratori. E’ di soli due giorni fa la notizia che 23 mila lavoratori dell’industria del tabacco, dopo aver scioperato e bloccato le strade di Giza per due giorni interi, sono riusciti ad aumentare significativamente i loro stipendi e ad imporre contratti stabili per i 6 mila lavoratori precari. A Mahalla, invece, città simbolo delle proteste anti-Mubarak, si è perfino giunti a dichiarare l’indipendenza della città “dall’Egitto dei Fratelli Musulmani”, annunciando la creazione di un “consiglio rivoluzionario”, composto da studenti e lavoratori. Ecco, se fossi Donald Trump anche io inizierei a tremare.