“In culo ai Maya” pensa dal palco Joe, mentre fa risuonare ancora una volta, davanti alla folla urlante, la sua Telecaster nera graffiata. Sempre lei, come una moglie devota, gli è stata accanto da quando ricevette 120 sterline per sposare una clandestina, aiutandola così ad ottenere la cittadinanza britannica. Oggi quella chitarra…
Così avrei voluto poter cominciare questo post.
Avrei voluto fosse solo una recensione dell’ennesimo concerto di Joe Strummer & the Mescaleros, magari con qualche apparizione speciale degli ex-Clash sul palco.
Invece dieci anni fa, il 22 dicembre 2002, Joe è morto a soli 50 anni. Se n’è andato lasciando un vuoto incolmabile nella musica mondiale. Il ragazzo che prima dei concerti aiutava i service di tutto il mondo a montare i palchi e a smontare le seggiole dei teatri “perchè la gente vuole ballare”, dopo un periodo d’assenza durato circa 15 anni era tornato e diventato uomo libero; libero di togliersi qualsivoglia etichetta, non era più punk, non era rock, era solo Joe.
Così registrò nel 1999 “Rock Art and the X-ray style”, album frutto delle sue esperienze “sonore” pescate in giro per l’Europa con un registratore a cassette trisavolo dell’Ipod. Dopo Rock art arrivarono le ultime due perle della sua carriera: “Global a Go-Go” (2001) e “Streetcore” (2003) uscito postumo. Proprio in Silver and Gold, ultimo brano di quell’album – mai finito di registrare a causa del decesso – Joe canta “farò molte cose, d’oro e d’argento, ma devo darmi una mossa prima che diventi troppo vecchio.”
Due giorni dopo morì. Prima del fade-out di quell’ultima canzone si sente chiaramente la sua voce dire “ok, that’s a take”, “ok, è una prova.”
“Abbassate quei cazzo di telefonini! Mettere i video su Youtube non vi farà godere di più il concerto” dice da quello che è stato il suo pulpito negli ultimi 40 anni il vecchio leone, oramai sessantenne, colpito dagli acciacchi ma costantemente coperto di sudore quando si tratta di esibirsi.
Si avvicina al microfono e…
Si sarebbe comportato così davanti al pubblico melenso dei festival d’oggi. Ai suoi tempi si spaccavano bassi e chitarre sui palchi, ai nostri se il rocker di turno facesse stage diving nessuno lo piglierebbe, perché tutti avrebbero uno Smartphone in mano.
La sua voce, che già in gioventù si scagliava contro i poteri forti denunciandone le nefandezze (I’m so bored with U.S.A., Koka Kola, Guns of Brixton ma anche la stessa London Calling), oggi servirebbe più che mai. Non è un problema di leadership, non ce n’è bisogno; c’è bisogno di qualcuno che possa, anche tramite l’arte, indicare una via.
Joe è stato uno degli ultimi a farlo.
I Mescaleros sono impeccabili come al solito e Joe non ha risparmiato nemmeno una stilla delle energie che aveva in corpo. L’età può farsi sentire quanto vuole, ma lui ricaccia via tutti gli acciacchi per l’ululato finale di London Calling, rimasto intatto, doloroso e scanzonato come fosse ancora il 1979.
“It’s never been so much alike, alike, alike…”
di Francesco Mandolini, giornalista e musicista precario