All’Università di Trieste si è discusso dell’uso del femminile nella lingua italiana. E le donne, a volte per pigrizia o per timore di perdere prestigio e credibilità, si presentano come “direttore”, “professore”, “ministro”, non declinando al femminile i sostantivi che indicano ruoli e professioni da cui per lungo tempo sono state escluse
Il primo gesto rivoluzionario, diceva Rosa Luxemburg, è chiamare le cose con il loro vero nome. Allora una donna è un sindaco o una sindaca? Una direttrice o un direttore? Sono passati oltre vent’anni dalla pubblicazione del libro di Alma Sabatini Il sessismo nella lingua italiana, ma la questione è ancora aperta, perché il linguaggio che usiamo ogni giorno ancora tende a rendere invisibili i soggetti femminili e continua a veicolare stereotipi che appiattiscono l’immagine della donna.
Lunedì 17 dicembre, all’Università di Trieste, in occasione della cerimonia conclusiva dell’ottava edizione del corso “Donne, Politica, Istituzioni”, si è discusso dell’uso e del non uso del femminile nella lingua italiana. È emerso un quadro fatto di luci e ombre. Da un lato le donne hanno raggiunto posizioni di prestigio nelle istituzioni, nelle facoltà, nelle aziende, e il linguaggio come tali deve riconoscerle ed esprimere, attraverso l’uso del genere femminile, questa nuova realtà. Dall’altro, le stesse donne, a volte per pigrizia e per abitudine, a volte per timore di perdere prestigio e credibilità, si presentano come “direttore”, “professore”, “ministro”, non declinando al femminile i sostantivi che indicano ruoli e professioni, da cui per lungo tempo sono state escluse. “E questo mette un freno alla lotta al maschile generico”, ha ribadito Marina Sbisà, filosofa del linguaggio e direttrice del Dipartimento di studi umanistici dell’ateneo triestino. “La lingua, però, non è immobile, cambia attraverso l’uso. È importante perciò rendere visibile il genere femminile per dare visibilità linguistica a una pluralità di soggetti e per abituarci all’idea che certi sostantivi, se declinati al femminile, non connotano niente di inferiore”. Il linguaggio è dunque sessista? “Lo è necessariamente in una società che pone differenze non solo qualitative, ma anche di livello gerarchico tra i generi, perché il linguaggio rispecchia la società, è un deposito collettivo di valori e stereotipi. La donna che, nominata direttore, preferisce non essere chiamata direttrice vive la sua promozione come individuale e implicitamente rafforza lo stereotipo che tale ruolo sia tipicamente maschile. Al contrario, presentandosi come direttrice, allude al fatto che anche le donne ormai ricoprono incarichi dirigenziali”. Riflessione che accompagna il percorso professionale e umano di Paola Di Nicola, che nel libro La giudice. Una donna in magistratura, racconta: “Sono una donna, faccio il lavoro di giudice, sono quindi un giudice donna, per cui va utilizzato l’articolo femminile. È solo un articolo, due lettere, che comunque fanno pensare e forse un giorno, senza pretesa per nessuno, cambieranno il mondo”.
Del resto, “per molto tempo le donne hanno dovuto travestirsi da uomini per avere un riconoscimento sociale – ha ribadito Cecilia Robustelli, professoressa di linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia e collaboratrice dell’Accademia della Crusca – e anche nel linguaggio si è cristallizzata un’amputazione della soggettività femminile. Che tuttora permane: a causa della presunta neutralità del maschile, per l’incertezza lessicale, ovvero ci si chiede continuamente se sia corretto dire ministra o la dirigente, e perché, inevitabilmente, ci vuole tempo per abituarsi alle forme nuove, che per alcuni risultano cacofoniche. Siamo abituati a parlare del sindaco e non della sindaca”. Se Robustelli, in occasione dell’incontro, ha illustrato alcune delle strategie comunicative tratte dalle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Fabiana Fusco, linguista dell’Università di Udine, ha presentato una ricca carrellata di esempi che testimoniano come spesso i dizionari italiani inciampino su scelte sessiste. “Dalle definizioni lessicografiche emerge infatti un ritratto femminile stereotipato. Basti confrontare i termini donna, madre, femmina, con i corrispettivi uomo, padre, maschio”. Insomma, il dizionario non raccoglie semplicemente le parole e le locuzioni di una lingua, dandone le definizioni, ma “è un’opera ideologica, che riflette la mentalità di chi l’ha scritto e contribuisce a forgiare quella di chi lo consulta. Ma sono ancora troppo poche le donne che lavorano nelle redazioni dei dizionari e un punto di vista femminile sarebbe necessario per aggiustare certe storture e smussare certi stereotipi culturali e linguistici”.