Nel capoluogo campano si avvia a conclusione uno dei primi dibattimenti per reati ambientali compiuti dai clan. Imprenditori, funzionari e anche tre carabinieri sono accusati, a vario titolo di avere costruito una associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti e al disastro ambientale
“Questo è uno dei primi processi che vede alla sbarra l’ecomafia, fino ad ora conosciuta solo come efficace definizione giornalistica”. Il pubblico ministero della Procura di Napoli, Maria Cristina Ribera, inizia così la sua lunga requisitoria nel processo denominato Carosello, iniziato nell’ottobre 2006 a carico di una associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e al disastro ambientale. L’accusa ha chiesto per gli imputati, in tutto 26 tra imprenditori, funzionari, anche tre carabinieri coinvolti, un totale di 232 anni di carcere così come la confisca di impianti e mezzi.
Il pubblico ministero ha ricostruito i capi di imputazione e gli elementi di prova raccolti. Per alcuni reati è scattata la prescrizione, ma l’impianto accusatorio ha retto. “Il disastro ambientale – ha precisato il pm – è in atto e quindi i tempi di prescrizione, per questo reato, non sono decorsi”. Un’ecatombe che sta ancora sprigionando i suoi effetti devastanti. I rifiuti tossici attraversavano il paese, provenivano da Toscana e Veneto, e venivano fintamente trattati prima di essere scaricati nelle terre dell’acerrano, in provincia di Napoli, ma anche nei regi lagni con profitti enormi.
Il pm ha chiesto 18 anni per ognuno dei tre fratelli Pellini, responsabili dell’organizzazione, che insieme a Pino Buttone, “imprenditore boss” del clan Belforte, rispondono anche dell’aggravante di aver favorito un clan di camorra. La ‘monnezza’ tossica smaltita illecitamente è ancora lì, alcuni terreni destinatari di smaltimento non sono ancora stati identificati, “nessuna bonifica è stata avviata”, ha tenuto a rimarcare la pubblica accusa. In passato i Pellini hanno anche lavorato con il commissariato di governo per l’emergenza rifiuti in Campania. In questi anni hanno goduto di coperture ad alti livelli: uno dei fratelli, Salvatore, è un carabiniere, e tra gli imputati figura un appuntato oltre a Giuseppe Curcio, maresciallo dell’arma, tornato in servizio durante il dibattimento, per il quale l’accusa ha chiesto 7 anni di detenzione.
Lui, come gli altri, ribadisce l’estraneità alle accuse. Il pubblico ministero ha ricordato le parole del pentito Pasquale Di Fiore che ha raccontato come i contadini, stanchi delle denunce insabbiate, si fossero rivolti al clan per fermare gli scarichi di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici. “I contadini – ha raccontato il collaboratore – avevano paura visto che gli ortaggi non avevano più mercato e dovevano falsificare le etichette di provenienza”. Non solo, sempre Di Fiore ha ricordato come “i Pellini sul comune sono un altro clan” in riferimento alle entrature di cui godevano presso l’ente locale.
Dopo la lunga requisitoria, che ha occupato due udienze, è arrivata la richiesta dell’avvocato Giovanni Bianco, legale della famiglia Cannavacciuolo, che ne ha ripercorso la tragedia. I Cannavacciuolo, pastori da generazioni, hanno visto il loro gregge abbattuto dopo che le autorità locali avevano riscontrato la presenza di diossina oltre la soglia nei capi di bestiame. Pecore che nascevano deformi, animali che si nutrivano nei terreni contaminati dagli smaltimenti illeciti del sistema Pellini. I Canavacciuolo non hanno mai smesso di denunciare quanto subivano. “La comunità acerrana – ha ricordato l’avvocato – paga la conseguenze di questo disastro ambientale, di questo sistema organizzato in modo criminale per il solo fine del lucro”.
Il legale di famiglia ha ricordato Vincenzo Cannavacciuolo, fulminato da un tumore, ‘Morto in attesa di giustizia’, prima di concludere: “Sarebbe bello essere atei in questo mondo dove regna il dio denaro”. In chiusura Pino Buttone, ritenuto imprenditore-boss del clan, collegato in videoconferenza dal carcere di Milano, ha attaccato il pubblico ministero Maria Cristina Ribera e Mario Taliendo, maresciallo capo del Noe, che ha condotto le indagini, prima di augurare a tutti buon anno.
Diverse le associazioni presenti che hanno chiesto verità e giustizia e posto una questione al sindaco di Acerra. “In aula era presente anche Alessandro D’Iorio, assessore al bilancio del comune di Acerra che fa parte dello staff del collegio di difesa dei Pellini – hanno evidenziato le associazioni in un comunicato congiunto al termine dell’udienza – troviamo questo ruolo incompatibile con quello di rappresentante della comunità”. Di questa circostanza abbiamo chiesto conto all’assessore attraverso telefono e email disponibili sul sito del comune, al momento senza ricevere risposta.
Prossima udienza a fine gennaio per l’arringa difensiva prima che la Corte si riunisca per emettere la sentenza.