A trent'anni dall'atto secondo, l'architetto Melandri svela i segreti dietro alle scorribande tra le colline toscane insieme a Tognazzi, Noiret, Celi, Montagnani, Del Prete e "soprattutto quel genio di Monicelli". E tra i retroscena anche la scena epica degli schiaffi alla stazione:"Le comparse si ribellarono perché erano veri"
Il sorriso s’illumina quando si apre la luce sui ricordi, la mente galoppa negli anni e lui rivive quelle fotografie che hanno segnato un’epoca per la cinematografia italiana. Quel papillon che gli mise al collo Mario Monicelli non se l’è più tolto e, talvolta, ha avuto difficoltà anche a dissociarsi dal nome, Rambaldo Melandri, “architetto trombato, ma per pochi voti, per l’assessorato ai lavori pubblici del Comune di Firenze”. Benvenuti nel mondo di Gastone Moschin, 83 anni, uno dei grandi signori della commedia all’italiana, uno dei pochi sopravvissuti a quel film, ritirato da tempo nella sua casa di Narni, in Umbria, dove si diverte coi cavalli e la sua scuola di recitazione. Un signor attore, che ha alternato la sua carriera tra cinema e recitazione. Quando arrivò Amici Miei, nel 1975, aveva appena finito di girare il Padrino parte seconda con Francis Ford Coppola, tanto per intenderci. E aveva vinto un Nastro d’argento per miglior attore non protagonista (Signore e signori di Pietro Germi) e lavorato con Luigi Zampa, Bernardo Bertolucci, Damiano Damiani, Duccio Tessari.
Aveva girato 52 film, molti da protagonista, aveva fatto ridere e piangere, aveva fatto la vittima e il carnefice. Ma la popolarità che gli arrivò addosso con Amici Miei non è niente di paragonabile. Il film fu campione d’incassi, e arrivò un sequel che, secondo i cinefili, è riuscito meglio del primo. Lui era l’architetto Melandri, appunto, “il più fragile”, racconta oggi dalla sua casa, “l’ingenuo del gruppo, il meno preparato alla vita”. Non è stato semplice fargli aprire quel cassetto, è da tempo che schiva i giornalisti. A chi lo cerca dice che lui ormai non lavora più, ma quando lo stuzzichiamo su quel set si trasforma, gli brillano gli occhi e la mente. “Fu tutto perfetto. Anche se iniziammo male: Pietro Germi, il primo autore, morì una settimana prima dell’inizio delle riprese. Monicelli, con grande signorilità, girò il film come Germi lo aveva pensato”.
Zingarate toscane. “Cos’è la zingarata? Un’auto, e noi sopra. Monicelli accendeva la musica e dava il ciak. Improvvisazione, anche. Ma soprattutto è la fine dell’inizio, quando annoiati ci fermiamo alla giostra, sui cavallini, col pensiero che è notte fonda e che dobbiamo tornare alla vita reale. Non azzardo se dico che Amici Miei è stato molto più documentario che film. E le zingarate probabilmente esisterebbero ancora se il tempo non ci avesse cambiato. Oggi apriamo la finestra e l’Italia, il mondo, non ci permettono nessuna zingarata, nessuno spiazzo di allegria. Non è più possibile, come invece avveniva in quel film, abbandonare per una attimo la quotidianità. Gli anni Sessanta e Settanta erano fatti di speranze. Il cinema era un’industria in movimento, si lavorava nelle co-produzioni. Io all’epoca giravo un giorno in Italia, il giorno dopo in Jugoslavia e quell’altro ancora in Francia”.
La scelta di Firenze. L’accento toscano si rivelò un successo per la comicità del film. Ma Moschin spiega bene perché la location fu quella. All’inizio doveva essere una non meglio precisata città, non doveva essere un luogo centrale per la sceneggiatura: “In realtà il mio personaggio è esistito davvero, faceva l’architetto al comune di Firenze. E accadde che, nella vita reale, si innamorò perdutamente della moglie di un avvocato molto conosciuto in Toscana. Nel film vennero solo esagerati i toni e l’avvocato diventò il chirurgo Sassaroli, ma successe che andò davvero a chiedere la mano al marito della donna. Che gliela cedette senza battere ciglio. Leggende metropolitane, che poi Monicelli, da buon toscanaccio, farcì con i suoi di ricordi. Ecco perché la storia nasce a Firenze. Tutto quello che è venuto dopo è adattamento cinematografico. Ma il film prende corpo da quell’episodio”.
Gli schiaffi alla stazione. Quella che nell’immaginario collettivo è la scena epica del film, Moschin la ricorda come un incubo. Intanto i vagoni erano tutti modificati con il finestrino che si abbassava fino in fondo e le comparse che si dovevano sporgere. Ma questo lo raccontò già Monicelli. Quello che nessuno sapeva è che si creò una rivolta tra le comparse del film perché Monicelli voleva che gli schiaffi fossero veri. “Noi di corsa, saltando, dovevamo cercare di non far male a quei ragazzi. Ma il regista, col megafono, urlava, più forte, più forte. Non fu un vezzo, era il clima di quei giorni sul set. E a Mario piaceva giocare, nonostante l’autorevolezza che poi aveva. Lui che urlava picchiate, in faccia, più forte. E le comparse incazzate nere. Fu un incubo girare quelle scene”.
La crocifissione “un calvario”. “Il mio incubo l’ho vissuto sul set del secondo episodio di quella che è stata la trilogia. Partecipo alla processione, porto la croce in spalla e vengo crocifisso. Monicelli decise che la croce doveva spezzarsi e cadere. Non c’era una controfigura, ero io. E mentre stavo lassù, oltre alla paura di farmi male, nonostante cadessi su fango morbido, il terreno pulito, temevo che mi lasciassero lì nella melma. Un senso di impotenza. Non accadde, ma ci avrebbero messo un attimo a dire, ok ragazzi, la scena va bene, ci vediamo domani alle dieci sul set, ciao”. Era questo lo spirito. Anche perché sul set nacquero amicizie vere, che andarono avanti negli anni. Soprattutto Ugo Tognazzi con Adolfo Celi, che non si lasciarono più. E Moschin con Renzo Montagnani, subentrato nell’Atto II a Duilio Del Prete che non stava bene e che era il barista Necchi. “Con Renzo”, racconta Moschin, “nacque qualcosa in più. Ero attaccatissimo a tutti, lui divenne da quel momento uno dei miei amici più cari”.
L’epilogo della commedia. “Amici miei non è un film comico. Dentro ci sono maschere tragiche, come quella di Tognazzi. C’è la morte di Noiret, c’è la solitudine di tutti noi. Non nasce per far ridere. La risata scaturiva dalla grossolanità dello scherzo”. Moschin posa lo sguardo su quello che invece è il cinema italiano oggi. Non vive di nostalgie, ma in maniera solida spiega che con il secondo atto di Amici miei si è chiuso definitivamente un ciclo, quello della commedia all’italiana. “Amo il cinema, gli ho dedicato tutta la mia vita. Ho amato in maniera smisurata registi come Fellini e Rosi. Ho amato e amo ancora quello che è stato il cinema di John Ford. Credo che in lui, in quei western, ci sia l’epicità che ritroviamo soltanto nella commedia italiana”. È per questo che non ci sarà mai più un Amici miei, il punto più alto di un filone che faceva sorridere, ma non solo.
Non esageriamo nel dire che il film segnò un’epoca: è così, fu la fine di un ciclo che nessuno è più riuscito a trovare, forse perché come spiega Moschin “oggi c’è poco da ridere”. O più semplicemente perché i maestri di quella commedia non esistono più e non sono più nati. Non ci sono in giro eredi di Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Paolo Stoppa , il sempre sottovalutato Renzo Montagnani, Duilio Del Prete. Moschin, appunto. Non ci sono Alberto Sordi e l’unico che minimamente gli si è accostato è stato Carlo Verdone, ma con tutt’altro cinema. Non c’è più la coralità, perché oggi i film, come spiega Pupi Avati, sono disegnati su un attore protagonista e nulla più. Non c’è Vittorio Gassman. Non c’è più Mario Monicelli, che di quella commedia è stato il padre.
da il Fatto Quotidiano di lunedì 24 dicembre 2012