Un Paese dove la maggioranza dell’elettorato vota tendenzialmente a destra. Con un leader della destra screditato e sempre più populista e conservatore, comunque con un suo seguito, uno zoccolo duro difficile da scalfire. E dove la sinistra riesce alla fine a imporsi, con un candidato dall’immagine iniziale un po’scialba, nella sostanza un moderato, che si barcamena fino alle elezioni fra l’estrema sinistra e il centro, non senza qualche ambiguità. No, non è quello che potrebbe accadere in Italia nei prossimi mesi (almeno nelle speranze del Pd). Ma è ciò che è avvenuto meno di un anno fa in Francia.

Olivier Faure, deputato socialista, 44 anni, che proviene dalle case popolari della periferia parigina, è considerato uno degli autori di quel miracolo, inaspettato fino a pochi mesi prima delle presidenziali francesi, la scorsa primavera: la vittoria di François Hollande. Sconosciuto ai più, critico nei confronti dei baroni del Partito socialista (Ps), Faure divenne in quei mesi l’«esperto opinione pubblica» della campagna. Sì, al timone delle variazioni del discorso del candidato in funzione dei sondaggi. Dice «di non conoscere a sufficienza la situazione italiana», anche se ammette di «aver incontrato l’altro giorno a Torino alcuni esponenti del Partito democratico». Alla fine accetta di dare qualche consiglio alla sinistra italiana.

In Italia la sinistra deve affrontare Berlusconi. In Francia c’era Sarkozy. La stessa cosa?
Le similarità non mancano. Sarkozy, che però era ancora in carica come Presidente, aspettò molto prima di dichiararsi e avviare la sua campagna. Quest’attesa fu già un problema per noi. E nel momento in cui divenne il candidato ufficiale della destra, iniziò una campagna aggressiva, sulla crisi economica e l’immigrazione. Il suo obiettivo era giocare sulle fratture all’interno della società e dell’elettorato, mettere gli uni contro gli altri: strappare in sostanza il 50% dei consensi più un voto.

Qual è stata la vostra risposta?
Non seguirlo in quella corsa. Ma proporre un discorso che contenga un messaggio “federatore”. Siamo stati attenti a non cadere, come Sarkozy voleva, nella logica del conflitto permanente.

Avete fatto delle promesse?
L’epoca delle grandi promesse nello stile di Berlusconi e Sarkozy è finita. Come l’era dei numeri mirabolanti. La gente non ci crede più. Abbiamo cercato di giocare sul piano del realismo economico, della necessità di risanare lo Stato e l’economia. Ma al tempo stesso puntando molto sul miglioramento della giustizia sociale e soprattutto della condizione dei giovani. Uno dei leitmotiv della campagna di Hollande è stato proprio questo: alla fine dei cinque anni del mandato i giovani francesi avranno più speranze rispetto a oggi. Anche a questo serviranno i sacrifici.

Sembra che per Hollande sia stato un percorso facile fino in fondo…
Non lo è stato per nulla. Basti ricordare che alla fine Sarkozy ha vinto in maniera più che onorevole, con il 48,3% dei voti al secondo turno, pur essendo arrivato al termine dei suoi cinque anni a liveli bassissimi nei sondaggi e profondamente screditato. Non è mai facile in Francia per un candidato della sinistra vincere alle presidenziali.

Ma voi, almeno, non dovevate affrontare anche un candidato forte al centro, come sembra profilarsi sempre più in Italia, nella persona di Mario Monti.
E’ vero. Ma anche Hollande, per imporsi, doveva convincere almeno una parte degli elettori di centro e al tempo stesso conquistare il favore di quelli dell’estrema sinistra, almeno per il secondo turno, perché al primo avevano un proprio candidato, Jean-Luc Mélenchon. Hollande ha presentato un’agenda precisa fin dall’inizio, perché fossero chiare le condizioni da accettare per governare con lui, una base irrinunciabile. Ma poi ha anche dovuto riadattare il discorso su altri punti, strada facendo, per mantenere quel vasto spettro di consensi cui abbiamo accennato.

Ci può fare un esempio?
Sul nucleare Hollande ha iniziato in maniera molto critica, puntando a una riduzione sostenuta dell’attività negli anni a venire. Ma questo settore è molto importante per l’industria e l’occupazione in Francia. Alla fine della campagna l’obiettivo si è ridotto alla chiusura durante il suo mandato di un’unica centrale, la più antiquata e pericolosa.

Può dare un ultimo consiglio alla sinistra italiana?
Non svelare tutto all’inizio. Lasciare delle cartucce da sparare nel corso della campagna. Noi abbiamo iniziato bene con le primarie: a quel momento siamo saliti nei sondaggi, mentre in precedenza il Partito socialista era in difficoltà. Anche in questo può valere un certo parallelismo con il Pd. Poi c’è satta una fase di stagnazione, fino al gennaio 2012, quattro mesi prima delle elezioni, quando Hollande ha pronunciato il discorso di Le Bourget contro la finanza. A quel momento è risalito, per poi andare incontro a un’altra fase di assestamento. Un mese e mezzo prima della consultazione ha proposto la famosa tassa del 75% su tutti i redditi annui superiori al milione di euro. Quella è stata una carta fondamentale per la vittoria finale. E abbiamo aspettato del tempo prima di giocarla. Dovevamo farlo al momento giusto.

Qualche rimpianto lasciato dalla vittoria, nonostante tutto?
La difficoltà per il Partito socialista e il candidato Hollande a convincere il ceto medio-basso, che più soffre per la crisi. In quella fascia non siamo riusciti a vincere, hanno prevalso forze populiste come il Front national. Sono quelle persone che si chiedono: perché io che lavoro non riesco ad arrivare alla fine del mese? Perché non vivo meglio di chi sopravvive solo grazie all’assistenza pubblica? Si domandono: è questa la concezione della giustizia sociale che ha la sinistra? I socialisti in Francia riescono più facilmente a strappare l’appoggio dei ceti urbani più abbienti e intellettuali o delle frange di popolazione più povere delle periferie immediate. Ma non di questo ceto medio in difficoltà.

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