Il procuratore di Torino spiega: "La cosa grave non è la commistione dei ruoli, ma il pericolo che l’esercizio delle funzioni giudiziarie – prima o dopo il mandato parlamentare – possa apparire distorto per l’influenza di rapporti politici"
Antonio Ingroia sta per decidere. Piero Grasso l’ha comunicato in una conferenza stampa orchestrata da Bersani. Nel caso di magistrati “prestati” alla politica, la cosa grave non è la contingente commistione dei ruoli (che può anzi costituire un utile scambio di esperienze), ma il pericolo che l’esercizio delle funzioni giudiziarie – prima o dopo il mandato parlamentare – possa apparire distorto per l’influenza di rapporti politici. La questione non può essere elusa. E un’analisi non edulcorata deve preoccuparsi – più che dei magistrati che vanno in parlamento – di come essi ci vadano, cioè di quali siano i percorsi che li hanno portati alla candidatura.
QUEL CONCORSO DEL CSM
Decisivo, al riguardo, è il parametro della coerenza. Ancora recentemente Grasso fece sapere che “un’eventuale esperienza politica sotto forma di schieramento con un partito è cosa estranea al mio ruolo, alla mia funzione, alla mia cultura”. Sono frequenti gli scarti tra parole e verità nel linguaggio della politica e Grasso – si potrebbe dire – si è semplicemente… portato avanti col nuovo lavoro. Ma al di là delle battute, c’è un episodio nella carriera di Grasso (ricca anche di successi) che vorrei citare e non solo perché mi ha interessato direttamente. Il concorso bandito dal Csm per nominare il nuovo procuratore nazionale antimafia dopo la fine del mandato di Pier Luigi Vigna scatenò una vera e propria “guerra” contro di me, prima con un decreto legge poi con vari emendamenti contra personam, inseriti nella legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario con lo scopo preciso – pubblicamente proclamato e mai smentito da nessuno – di farmi “pagare” il processo Andreotti. Ne risultò un concorso viziato da ripetute modifiche – in corso d’opera – delle regole stabilite.
La legge contra Caselli era con tutta evidenza un segmento dell’attacco all’indipendenza della magistratura (colpiscine uno per educare gli altri). Sarà poi dichiarata incostituzionale: ma intanto riuscirono a prevalere i centri di potere che non tollerano un controllo di legalità davvero eguale per tutti. Un magistrato del lontano Ecuador (nominato dal governo presidente di tribunale in violazione delle regole previste dall’ordinamento) ha rifiutato l’incarico e denunziato la lesione dell’indipendenza della magistratura con una lettera aperta.
In Italia non usa, salvo che si voglia equiparare ad una siffatta lettera l’uscita di Grasso in un libro/intervista di un paio d’anni dopo la nomina a Pna, che liquidava il vulnus recato all’indipendenza della magistratura con queste disinvolte parole: “Rimango fortemente critico verso la scelta governativa di una legge contro Caselli. Soprattutto perché era dichiarato l’intento di sfavorire lui e favorire me. Io ho un temperamento sportivo, mi piace l’agonismo e sapere che si vince o si perde in relazione ai propri meriti e non per interessamenti esterni”. In quel libro/intervista c’era anche un duro attacco chiaramente riferito agli interventi investigativo-giudiziari operati dalla Procura di Palermo dopo le stragi del 1992 sul versante degli imputati “eccellenti”. Si censuravano coloro che, imbastendo “processi spettacolari” e ponendosi fuori della Costituzione, pretendevano di “celebrare comunque i processi” a prescindere dalle prove e trasformavano le inchieste in una “gogna pubblica efficace perché distrugge una carriera politica”.
MAFIA E POLITICA
Un attacco pesante, in linea con la voglia diffusa di normalizzare la magistratura: tanto ingiusto quanto infondato, prima di tutto nel merito ma anche nella pretesa di rovesciare la realtà; posto che vi erano state ben poche “gogne” per i politici imputati, quasi sempre beatificati da certa tv e certi giornali, ed invece molte “gogne” per i magistrati che, in ossequio alla legge e alla Costituzione, osavano inquisirli in presenza di gravi notizie di reato, facendo il loro dovere con indipendenza, senza sconti o timidezze. Si apre così il capitolo Ingroia. Con le stragi del 1992 si verificò qualcosa di simile all’11 settembre di New York: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come le Torri Gemelle, simboli abbattuti da una violenza politica totalizzante, con obiettivi proiettati ben oltre le vittime immediatamente colpite.
Quest’immagine (che è di Andrea Camilleri) esprime bene il gravissimo pericolo che si abbatté sull’Italia: il pericolo di diventare uno Stato-mafia dominato da un’organizzazione criminale stragista. Per fortuna, con il concorso di tutti (istituzioni, società civile, forze dell’ordine e magistratura), invece di precipitare in un abisso senza fondo, siamo riusciti a resistere. La procura di Palermo di allora ha contribuito a salvare l’Italia, non solo inceppando l’ala militare della mafia, ma anche aggredendo (con pari intensità e determinazione) le complicità che di Cosa nostra sono il cuore ed il cervello. Un’azione antimafia non solo di facciata, che ha avuto in Ingroia uno dei protagonisti principali (basti citare i processi Contrada e Dell’Utri), capace di operare con indipendenza, continuità e coerenza assolute per tutti gli ultimi vent’anni, nonostante gli attacchi indecenti subiti.
IL SUCCESSO DI PALERMO
Così, anche grazie alla sua azione, sul piano investigativo-giudiziario abbiamo finito per “fare scuola”, in Europa e nel mondo. E non è un caso che la convenzione Onu contro la criminalità trans-nazionale firmata a Palermo, nel dicembre 2000, preveda tutta una serie di misure pensate con riferimento alla realtà specifica delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza di contrasto maturata sul campo soprattutto nel nostro Paese: dalla previsione come reato della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, all’incentivazione dei “pentimenti”, alla confisca dei beni dell’associazione (base dell’antimafia sociale che è diventata sintesi di dignità conquistata col lavoro libero, un baluardo della democrazia contro i ricatti dei mafiosi). Senonché, mentre esportavamo modelli vincenti, purtroppo dovevamo constatare che a cambiare – o cambiare troppo poco–era la politica, per lo meno certa politica: prodiga di proclami antimafia ma sempre pronta a mettere sul banco degli imputati i magistrati non compiacenti. Proprio riflettendo su tutto ciò, Ingroia ha maturato la convinzione che occorre contribuire ad un cambiamento degli schemi d’intervento della classe dirigente del Paese e ha assunto l’attuale impegno politico. Con una coerenza anche in questo caso degna del massimo rispetto, a prescindere dalle divergenze che possono esservi su punti specifici.
da Il Fatto Quotidiano del 29 dicembre 2012