Quando Papa Giovanni XXIII nel 1959, dopo appena tre mesi dalla sua elezione, decise di indire il Concilio Vaticano II per rinnovare la Chiesa e aprirla alla società, molti influenti cardinali (su tutti Alfredo Ottaviani) non erano affatto favorevoli. L’idea che il papa fosse infallibile –dogma proclamato da Pio IX nel 1870- e la Chiesa dovesse porsi al di sopra alla società, e non nella società, continuava a trovare molti accoliti,  tant’è che la decisione di proclamare papa il cardinale Roncalli sembrava proprio rispondere a un compromesso tra rinnovatori e conservatori, con questi ultimi convinti che Angelo Roncalli, ormai anziano, non avesse la personalità per porsi a guida del rinnovamento.

La Chiesa alla fine degli anni Cinquanta era afflitta da una crisi di vocazioni e da una progressiva perdita di praticanti, sempre più distanti da una liturgia percepita come estranea e non rispondente alle esigenze dei tempi. L’Italia, viveva un profondo cambiamento: le vecchie deferenze del mondo contadino si stavano sgretolando, l’industrializzazione e l’urbanizzazione stavano creando altri tipi di comunità, nuovi stili di vita imponevano altre esigenze. I parroci di campagna che spesso erano paladini di un ordine economico che postulava un mondo immobile, apparivano retaggi di un passato sempre più inascoltato dove, non di rado, la fede si mescolava alla superstizione.

In città la capacità di attrazione della Chiesa era ancora più bassa. Quella Chiesa – e papa Giovanni l’aveva capito benissimo – faticava a portare il suo messaggio perché il suo contenuto era prescrittivo, giudicante e non invece una voce, una possibilità di cammino spirituale offerta all’uomo.

Serviva una Chiesa capace di dialogare con il mondo contemporaneo per conquistare autorevolezza parlando alla pari con gli altri soggetti, da qui anche l’abbandono di uno strumento, per sua natura intollerante, come la scomunica e una nuova attenzione, non più paternalistica, nei confronti degli ultimi.

Dal punto di vista del costume, delle relazioni tra uomo e donna e del ruolo della donna nella Chiesa e nella società l’impulso rinnovatore del Concilio è stato del tutto inadeguato. Un’ostinata fedeltà letterale alle Scritture ha impedito di vedere che quelle condizioni femminili erano il retaggio delle condizioni di 2000 anni fa e lo stesso divario tra uomo e donna è scontato anche nell’Islam, allo stesso modo bloccato alla fotografia sociale della sua nascita. Entrambe le religioni faticano a concepire un allineamento tra uomo e donna, per questa c’è rispetto, nel cattolicesimo anche la santificazione, ma la donna non è mai sullo stesso piano dell’uomo. Eppure il Concilio Vaticano II poteva essere un’occasione per rileggere una condizione femminile che il segno dei tempi mostrava mutata e quei segni andavano accolti, come incitano a fare alcuni passaggi del Vangelo (Luca 12, 54 e Matteo 16, 3) quest’ultimo, in particolare, era stato ripreso ai tempi del Concilio come esplicita spinta al rinnovamento.

Nel cammino verso l’emancipazione femminile la Chiesa non ha mai speso parole importanti che potessero sostenerla. Dopo la fine del fascismo la Chiesa non si è discostata dal modello propagandato dal Regime di donna angelo del focolare, madre e moglie esemplare. La donna lavoratrice rimandava a un’idea di promiscuità con l’uomo.

Anche sulla mercificazione del corpo e della vita delle donne, niente, nessuna parola sulle case di appuntamento tacitamente tollerate: le cattolicissime Italia (nel 1958) e Spagna sono state in Europa le ultime nazioni ad abolirle. Il tradimento è un peccato, certo, ma con una prostituta lo è un po’ meno: l’importante è non offendere la morale, si fa ma non si dice e nessuno deve vedere, da qui anche la formula delle “case chiuse”. La prostituta, più che una donna sfruttata, è una viziosa. Ancora nei “moderni” anni Sessanta e Settanta del Novecento era la salvaguardia del comune senso del pudore che interessava la Chiesa.

Ciò ha fatto sì che il principale retaggio culturale trascinatosi nel tempo ha portato nelle menti più retrograde a percepire la donna come un corpo (oggetto) e non come una persona (soggetto). In Italia per arrivare a una legge sulla violenza sessuale si è dovuto attendere il 1996, sino a quel momento lo stupro è stato considerato un reato contro la morale e non contro la persona. Prima di questa legge, i processi intentati contro i violentatori sono stati spesso ulteriore causa di umiliazione per le donne che avevano subito violenza. Non di rado alla donna veniva chiesto come era vestita e se aveva avuto un atteggiamento provocatorio, quasi che la vittima, alla fine, fosse stato lo stupratore.  

Quello che in questi giorni ha scritto Bruno Volpe sul sito Pontifex (ripreso dal parroco di Lerici don Piero Corsi) sul femminicidio causato dalle donne che provocano, è figlio di una mentalità che ha albergato nella società italiana. Una mentalità diffusa, mai estirpata, che tra le altre cose ha prodotto l’abominio giuridico del delitto d’onore (abolito soltanto nel 1981) che consentiva l’uccisione del coniuge adultero con un notevole sconto di pena.

Viene da chiedersi: quale autorità morale può avere tra i fedeli un parroco che sostiene queste posizioni? A che prezzo la Chiesa può permettersi di soprassedere e  minimizzare? Su twitter il papa mostra tanto piglio contro i gay e i negatori di Dio (dov’è finito il dialogo?), ma quando si deve guardare in casa propria la prudenza fa rima con reticenza.

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