Alla fine del 2012, con buona pace della presunta profezia Maya, il genere umano esiste ancora, ma perde una delle sue menti più brillanti. L’anno si chiude con una triste notizia per il mondo della scienza, e non solo: la scomparsa di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina nel 1986 per la scoperta del fattore di crescita dei nervi (Ngf). Un anno, quello appena trascorso, ricco di scoperte e balzi in avanti nelle conoscenze del mondo fisico. Alcuni importanti interrogativi sulla struttura intima della materia, dopo decenni di studi, hanno finalmente trovato risposta, alimentando nuovi quesiti e innovativi filoni di ricerca per gli anni avvenire. Altri, invece, restano ancora insondabili. E non sono mancati errori e inesattezze, anche significative, al punto da mettere in discussione persino un mostro sacro come Albert Einstein.
I grandi successi: dalla particella di Dio allo sbarco su Marte. Una data, in particolare, secondo il giudizio concorde delle due principali riviste scientifiche “Nature” e “Science”, entra quest’anno di diritto nella storia della scienza: il 4 luglio. La comunità dei fisici attendeva questa data con trepidazione, come un bambino aspetta il Natale. Il giorno in cui gli Usa celebrano la loro indipendenza, gli scienziati del Cern di Ginevra annunciano la scoperta di uno dei mattoncini fondamentali della natura: la particella che dà massa a tutto ciò che ci circonda, dall’infinitamente piccolo, come l’atomo, all’infinitamente grande, come le galassie Si tratta dell’ormai famoso bosone di Higgs, più comunemente nota come “particella di Dio”, provocatorio nomignolo affibbiatogli dal fisico premio Nobel Leon Lederman a causa della sua quarantennale latitanza. Ci son volute 500 trilioni di collisioni protoniche (una cifra pari a 1 seguito da 18 zeri) lungo l’anello di Lhc, una pista magnetica di 27 chilometri all’interno della quale i fisici fanno scontrare fasci di particelle che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce, per raggiungere questo risultato. Una mole di dati che attende di essere analizzata dagli studiosi del Cern nei prossimi due anni, durante i quali l’acceleratore verrà spento per lavori di manutenzione che lo porteranno alla sua massima potenza energetica. La caccia al bosone di Higgs potrebbe, infatti, essere solo la prima tappa di un cammino ben più ambizioso e affascinante. L’enorme messe di dati raccolti finora potrebbe, difatti, nascondere la risposta a nuovi affascinanti interrogativi. Qual è la natura dello spazio-tempo? Com’è possibile conciliare meccanica quantistica e relatività generale? Le due grandi conquiste intellettuali della fisica moderna creano, infatti, una sorta di schizofrenia nelle attuali conoscenze del mondo che ci circonda. La meccanica quantistica descrive in maniera mirabile l’infinitamente piccolo, un mondo piatto che non fa che ribollire di quanti discreti. Di contro, la relatività di Einstein spiega l’universo su grandi scale, disegnando uno spazio-tempo curvo in cui tutto è continuo. Ma non è in grado, ad esempio, di descrivere cosa avviene dentro un buco nero o di dirci cosa è accaduto in prossimità del Big Bang. L’acceleratore Lhc potrebbe trovare in futuro nuove particelle esotiche capaci di fugare alcuni di questi dubbi.
Il 2012 segna anche un importante traguardo nel lungo percorso di avvicinamento dell’uomo verso Marte. Per la prima volta gli scienziati della Nasa sono riusciti a far sbarcare sul Pianeta rosso un laboratorio viaggiante. Le ultime delicate fasi della discesa del rover, battezzato Curiosity, indicate non a caso come “i sette minuti di terrore”, sono da considerare un capolavoro d’ingegneria. La sonda, troppo pesante con la sua stazza di circa una tonnellata per raggiungere la superficie tramite i tradizionali airbag, ha costretto gli studiosi del Jet propulsion laboratory di Pasadena, in California, ad aguzzare l’ingegno. Il risultato è l’ideazione di una sorta di gru volante simile a un elicottero, lo “sky crane”, che ha posato delicatamente Curiosity sul suolo marziano. Il rover-laboratorio nei prossimi mesi dovrà rispondere a un importante interrogativo: Marte in passato ha ospitato la vita? E se sì, in che forma? Le analisi delle prime rocce hanno riscontrato la presenza di tracce di molecole organiche, prive però di attività biologica. Tuttavia, il solo fatto che Curiosity, a differenza di tanti suoi predecessori di stazza inferiore, sia riuscito ad atterrare indenne su Marte è a ragione da considerare un’importante conquista per l’esplorazione dello spazio. Come dimostrano le immagini d’incontenibile giubilo degli scienziati della Nasa alla vista delle prime foto in bianco e nero delle ruote di Curiosity sul suolo marziano.
Rimanendo in tema di esplorazione di mondi alieni alla ricerca di condizioni di vita simili a quelle venutesi a creare sulla Terra 3,5 miliardi di anni fa, è di pochi mesi addietro la scoperta dell’esopianeta più vicino al sistema solare mai osservato finora. Si trova nel sistema ternario di “Alpha centauri”, a soli 4,3 anni luce di distanza dalla Terra. Ultimo in ordine di tempo di circa tremila pianeti extrasolari, la maggior parte dei quali scovati dalla sonda spaziale Nasa Kepler, ha una temperatura superficiale proibitiva per qualsiasi forma di vita, quasi duemila gradi. Ma gli astronomi non disperano. E ritengono che il sistema stellare di cui fa parte possa ospitare un altro corpo celeste collocato nella cosiddetta fascia di abitabilità, ovvero quella giusta distanza dalla stella madre tale da consentire la presenza di acqua allo stato liquido, condizione indispensabile per la vita. Gli studiosi lo cercheranno grazie a un nuovo strumento, che verrà installato il prossimo anno sul Very Large Telescope in Cile, in grado non solo di visualizzare un pianeta extrasolare, ma di studiarne la composizione dell’atmosfera a caccia di molecole compatibili con la vita.
Ma la ricerca di habitat estremi non si è limitata a mondi lontani. È proseguita anche sulla Terra, che nasconde ancora luoghi inesplorati. Dopo vent’anni di tentativi, scienziati russi sono riusciti a raggiungere le acque del lago Vostok, incontaminate da 15 milioni di anni, a quattro chilometri di profondità nei ghiacci dell’Antartide. Il lago subglaciale potrebbe conservare un ecosistema microbico preistorico unico, il cui studio potrebbe dare agli scienziati l’opportunità di osservare le condizioni di sopravvivenza in ambienti estremi e fornire importanti informazioni sull’origine della vita, una delle grandi domande ancora inevase della scienza. Sulla scia dei colleghi russi, proprio in queste settimane scienziati britannici stanno provando a raggiungere un altro lago subglaciale, l’Ellsworth, in una differente regione antartica.
L’osservazione, nel mese di gennaio, di una compagna oscura della Via Lattea, una galassia nana costituita dalla misteriosa materia che permea il 23 per cento del cosmo, ha dato quest’anno ulteriore vigore a un interrogativo che da tempo tormenta astrofisici e cosmologi. Com’è fatto il 96 per cento dell’universo? Sono molteplici ormai le prove che la nostra conoscenza dell’universo sia limitata a un piccolo spicchio, uno sparuto quattro per cento rappresentato dalla materia ordinaria. Tutto il resto è permeato da materia ed energia oscura, in quanto invisibili alla radiazione luminosa. La materia oscura, la cui presenza è desumibile solo indirettamente per i suoi effetti gravitazionali, è una fitta rete, una trama nascosta del cosmo che, come uno scheletro invisibile, tiene insieme le galassie. L’energia oscura è, invece, la responsabile dell’espansione accelerata dell’universo. Comprenderne la natura consentirebbe ai cosmologi di capire quale sarà la sorte dell’universo: se è destinato a sfaldarsi come una tela che si strappa, a ritornare al punto iniziale in un rewind cosmico, il cosiddetto “Big Crunch”, o a una lenta e inesorabile morte termica per raffreddamento.
L’anno appena trascorso ci ha anche consegnato preziose informazioni sull’origine della nostra specie e la sua storia evolutiva. I biologi molecolari del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania, guidati da Svante Pääbo, un’autorità nell’analisi del paleodna, grazie a un minuscolo frammento di una falange sono riusciti a decifrare la sequenza completa del Dna di un cugino dell’Homo Sapiens e dell’Homo di Neanderthal: l’Homo di Denisova, vissuto in Siberia tra 82 mila e 74 mila anni fa. I suoi resti – l’ossicino di un mignolo e due molari di una giovane donna – sono stati rinvenuti nel 2008 all’interno della caverna di Denisova, nelle montagne siberiane di Altai. Dall’esame del suo genoma si deduce che una piccola percentuale dei suoi geni è in comune con quella dell’uomo moderno. Tuttavia, gli antropologi tedeschi ritengono che l’incrocio non sia avvenuto direttamente, bensì attraverso i nostri cugini neanderthaliani.
Molti passi avanti sono stati, inoltre, compiuti quest’anno nel campo della genetica e della ricerca sulle cellule staminali. I primi risultati del progetto Encode (Encyclopedia of Dna elements) hanno definitivamente dimostrato che quella parte del genoma umano che in passato era stata erroneamente battezzata “Dna spazzatura”, perché non codificante per alcuna proteina, si è invece rivelata non solo molto utile, ma addirittura centrale per il controllo di tutta l’attività dei nostri geni, attraverso milioni di interruttori molecolari in grado di regolarne il corretto funzionamento. Il progetto, illustrato in sei articoli pubblicati su “Nature”, rappresenta l’alba dell’epigenetica, che nei prossimi anni consentirà di svelare molti lati oscuri del funzionamento del nostro codice genetico, permettendo in futuro di curare le principali patologie genetiche attraverso farmaci molecolari personalizzati e, secondo molti studiosi, di vivere più a lungo in salute sfiorando i 120 anni di età.
Le cellule staminali continuano a sorprendere, nel bene e nel male. Un team di ricercatori dell’Università di Bruxelles ha confermato il ruolo di alcune staminali nella proliferazione tumorale. Lo studio, pubblicato su “Nature”, ha infatti rivelato – attraverso un’innovativa tecnica in grado di seguire direttamente al microscopio lo sviluppo delle cellule in topi di laboratorio – che in un tumore non tutte le linee cellulari contribuiscono allo stesso modo. Alcune popolazioni scemano in poco tempo, mentre altre, per l’appunto le staminali cancerose, producono migliaia di cloni. Un gruppo di studiosi americani del Massachusetts General Hospital di Boston è, invece, riuscito a individuare per la prima volta nelle ovaie di giovani donne cellule staminali in grado di produrre ovociti fertili. La ricerca, pubblicata su “Nature medicine”, contraddice uno dei dogmi della biologia, secondo il quale le donne nascono con un numero già predeterminato di ovociti, senza possibilità di rimpiazzarli nell’arco della loro esistenza.
Nel campo dell’intelligenza artificiale sugli scudi una ricerca di un gruppo di scienziati dell’University of Pittsburgh che, come illustrato su “Lancet”, è riuscito a far muovere con la mente un braccio robotico impiantato su una paziente paralizzata. La tecnica, al momento ancora sperimentale e piuttosto costosa, è una conferma delle potenzialità delle interfacce cervello-macchina. Gli autori sperano che lo sviluppo di algoritmi più avanzati possa in futuro migliorare ulteriormente queste protesi neurali per aiutare i pazienti paralizzati a causa di ictus, traumi spinali e altre disabilità.
Gli errori e le bufale: dai neutrini superveloci al batterio mangia arsenico. La scienza è, quasi per statuto, un’impresa intellettuale basata sul dubbio, che si corregge da sola attraverso un continuo lavoro di revisione da parte della stessa comunità dei ricercatori. Un esempio mirabile è rappresentato dall’annuncio dell’osservazione di neutrini più veloci della luce nei laboratori sotterranei del Gran Sasso. Un annuncio che ha destato molto clamore perché scardinava uno dei dogmi della relatività di Einstein: il limite invalicabile rappresentato dalla velocità della luce nel vuoto. E che si è rivelato, alla fine, fallace. Le sorprendenti misure, effettuate a settembre 2011, erano dovute ad anomalie nel funzionamento degli strumenti. La correzione dell’errore – confermato poi nei mesi successivi dagli esperimenti Borexino, Icarus e Lvd – è stata compiuta dagli stessi ricercatori che lavoravano al rivelatore Opera. E, dopo la conferma che i neutrini erano tornati a obbedire ai principi codificati da Einstein, ha portato alle dimissioni del fisico Antonio Ereditato, a capo del team.
Un altro esempio di errore poi corretto è rappresentato dai cosiddetti batteri mangia arsenico. Nel dicembre di un anno fa uno studio americano pubblicato su “Science” fece molto scalpore: gli autori sostenevano di aver scoperto batteri capaci di incorporare arsenico nel loro Dna. Una notizia straordinaria perché significava che la vita può esistere anche con una chimica radicalmente diversa da quella che conosciamo. Ma che, anche in questo caso, si è rivelata inesatta, in seguito a ulteriori analisi effettuate dagli stessi studiosi della Nasa che inizialmente avevano dato l’annuncio della sensazionale scoperta.
In certi casi, invece, più che a inesattezze, che sono il sale della scienza, si è assistito a vere e proprie frodi, plagi o falsificazioni dei risultati. È il caso di Dipak Das, divenuto direttore del Cardiovascular Research Center della University of Connecticut grazie ai suoi studi sugli effetti benefici del resveratrolo, la principale molecola antiossidante del vino rosso. Studi che poi si sono rivelati frutto di grossolane falsificazioni di dati ed esperimenti inventati di sana pianta. Per non parlare dei 172 articoli dell’anestesiologo nipponico Yoshitaka Fujii, giudicati fraudolenti dalla stessa Società giapponese di anestesiologia. La rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), in un report pubblicato quest’anno, stima che la principale ragione del ritiro di articoli riguardanti le scienze della vita – più del 60 per cento – sia dovuta proprio a sospetti casi di plagio o frode.