Da gennaio a dicembre, nelle decine di vertici bilaterali, trilaterali, continentali e globali i leader europei hanno chiamato in causa sempre lo stesso concetto. Ue e Bce hanno tracciato la strada pagandone però le conseguenze in termini di crescita negativa
Austerity. Per gli Stati sovrani e i mercati internazionali è stata la parola dell’anno. Austerity come cambio di rotta, austerity come new deal, austerity, soprattutto, come strada obbligata. Nelle decine di vertici bilaterali, trilaterali, continentali e globali i leader europei hanno chiamato in causa sempre lo stesso concetto. Dopo l’esperienza del 2011, indiscutibilmente “l’anno dello spread”, Ue e Bce hanno tracciato la strada pagandone però le conseguenze in termini di crescita negativa.
Ma “rigore” significa soprattutto riforme. Quelle chieste, o per meglio dire imposte, ai membri dell’eurozona, chiamati a riformare i propri sistemi di spesa e fiscalità. Ma anche quelle invocate e mai realizzate sul fronte dei mercati finanziari. In assenza di provvedimenti adeguati, la finanza speculativa ha potuto operare senza freni, alle volte travolgendo il segmento dei titoli di Stato, altre volte infiammando il mercato dei derivati e provocando perdite da capogiro, come ha dimostrato il caso di JP Morgan e delle sue prodezze britanniche.
Negli Usa la grande riforma rappresentata dal Dodd Frank Act resta tale solo sulla carta mentre nella Ue la Tobin Tax continua a confermare la celebre definizione che ne diede il suo primo promotore (“un mostro di Loch Ness che appare e scompare continuamente”) e i progetti di riforma vengono affossati nell’indifferenza generale. Insomma, all’ansia per le riforme pro austerity non si è affiancata la stessa attenzione per una nuova regolamentazione dei mercati finanziari. E così accanto all’inevitabile recessione ha continuato a proliferare l’instabilità. Ecco le tappe di un anno di stop and go.
GENNAIO, ALLARME FALLIMENTI. Nel corso del 2012 i fallimenti delle società private europee potrebbero quasi raddoppiare. A lanciare l’allarme è l’agenzia di rating Standard & Poor’s. Il tasso di default, precisa S&P, è destinato a salire dal 4,8% di fine 2011 all’8,4 per cento. La causa? Un mercato dei bond sovrani troppo attraente che distoglie l’attenzione delle banche dal finanziamento all’economia reale.
FEBBRAIO, PIOVONO MILIARDI SULLE BANCHE EUROPEE. La Banca centrale europea concede 529,53 miliardi di euro di prestiti alle banche continentali: è la seconda tranche del maxi piano di rifinanziamento del settore. Sommati ai 489 miliardi già erogati a dicembre, i prestiti concessi dall’istituto centrale alle circa 800 banche richiedenti sfondano quota 1.000 miliardi. L’obiettivo è la riduzione della tensione sui mercati. Innaffiate dalla liquidità ottenuta ad un tasso di interesse dell’1%, le banche corrono a comprare i titoli di Stato dei Paesi a rischio che offrono rendimenti del 4 o 5% garantendosi una sicura plusvalenza. Gli spread si riducono, ma con le banche impegnate sul fronte delle obbligazioni sovrane i privati e le imprese restano a secco. A febbraio, rivelerà un mese più tardi la Bce, gli acquisti dei bond sovrani (il credito concesso agli Stati) di eurolandia aumentano del 6% contro il 4,9 di gennaio. Contemporaneamente, i prestiti concessi al settore privato (famiglie e imprese) aumentano su base annuale dell’1,1% a gennaio e dello 0,7% a febbraio. Prima di osservare effetti significativi sul credito all’economia reale, ammette la Bce, potrebbero passare anche tre anni.
MARZO, LA GRECIA E’ SALVA. E FALLITA. La Grecia è salva, almeno sulla carta. Il 9 marzo il Paese ottiene l’adesione dell’85% dei creditori al piano di ristrutturazione del debito. Le obbligazioni vengono dichiarate in default e sostituite da titoli nuovi a scadenza differita. Di fatto vengono tagliati in un colpo solo oltre 100 miliardi di euro di debito. In cambio, il Paese si è già impegnato a implementare una rigorosa politica di austerity che lo accompagnerà nel quinto anno consecutivo di recessione. Le borse europee recuperano terreno, lo spread Italia-Germania continua ridursi. Ma i problemi sono lontani dall’essere risolti.
APRILE, EMERGENZA OCCUPAZIONE. “Nei Paesi che hanno maggiormente cercato l’austerity e la deregolamentazione, soprattutto quelli dell’Europa meridionale, la situazione relativa alla crescita economica e all’occupazione ha continuato a peggiorare. Le ragioni principali del fallimento consistono nell’incapacità di queste politiche di stimolare gli investimenti privati”. Lo afferma l’International Labour Organization dell’Onu. Nel corso del 2012 il numero dei disoccupati nel mondo toccherà quota 202 milioni contro i 196 dell’inizio dell’anno. Gli ultimi dati disponibili parlano di un tasso di disoccupazione nell’area euro pari al 10,8%, il più elevato degli ultimi 15 anni ma con forti differenze nazionali. Si va dal 4,2% dell’Austria al 21% della Grecia e al 23,6 della Spagna. In Italia nell’ultimo trimestre 2011 il tasso aveva raggiunto il 9,7%, il livello più alto dal 2001, mentre 250mila, nella Penisola, sono i lavoratori in cassa integrazione.
MAGGIO, JP MORGAN PERDE 7 MILIARDI IN DERIVATI. Si chiama Jamie Dimon, ma per tutti è semplicemente The London whale, la balena di Londra, soprannome conquistato sul campo grazie alle dimensioni cetacee delle sue operazioni sul mercato dei derivati. Le sue ultime acrobazie come leader della divisione britannica di JP Morgan lo hanno portato a puntare forte su un indice di mercato noto come Markit CDX NA IG Series 9 costruito sui credit default swaps di 121 imprese americane ad elevato rating. In estrema sintesi, una scommessa sul deterioramento dello stato di salute di queste ultime. L’operazione si rivela un fallimento e rischia di costare alla banca fino a 7 miliardi di dollari. Un disastro che riporta d’attualità il tema delle riforme dei mercati finanziari promosse dal Dodd Frank Act, la legge Usa che, di fatto, non è ancora operativa.
GIUGNO, VERTICE UE, MARIO MONTI SUPERSTAR. Bruxelles, 28-29 giugno. Dopo tredici ore di vertice Angela Merkel cede parzialmente alle richieste di Mario Monti e Mariano Rajoy. L’Europa dà il via libera al fondo salva Stati con l’obiettivo di calmierare gli spread. Decisiva la mossa diplomatica di Roma e Madrid che avevano minacciato il veto sulla Tobin Tax, provvedimento fortemente sostenuto da Berlino. La sera stessa l’Italia batte la Germania 2-1 nella semifinale dei campionati europei di calcio in corso in Polonia e in Ucraina conquistando così l’accesso alla finale contro la Spagna. “Sono felice e orgoglioso per il successo della Nazionale. Domenica andrò a Kiev per la finale” dichiara con insolito entusiasmo il premier. Finirà 4-0 per la Spagna.
LUGLIO, LA SPAGNA AFFONDA. Né il successo sportivo né tanto meno la liquidità fornita alle banche dalla Bce, sembrano in grado di risollevare le sorti della Spagna. Gli istituti di credito di Madrid agonizzano, la disoccupazione riguarda circa un quarto della popolazione, i costi di rifinanziamento statale sono insostenibili. I bonos spagnoli a tre mesi rendono più dei titoli tedeschi a 30 anni, nelle emissioni di breve periodo il Paese paga interessi più alti di quelli del Portogallo. E l’effetto contagio si fa sentire sull’Italia, terzo contribuente del fondo salva Stati al quale ha ormai accesso anche Madrid. Il paradosso che aveva notato un mese prima il quotidiano Daily Telegraph, è realtà: l’Italia si indebita al 5% per finanziare la Spagna al 3%.
AGOSTO, IL FLOP DI IN BORSA E’ RATIFICATO. Il 16 agosto le azioni di Facebook scendono per la prima volta sotto la soglia dei 20 dollari. A circa tre mesi dall’esordio al Nasdaq, l’attesissimo ingresso in Borsa del social network si rivela una clamorosa delusione. Sotto accusa il prezzo di partenza, quei 38 dollari ad azione, che identificavano un valore complessivo della compagnia pari a oltre 100 miliardi che il mercato, evidentemente, ritiene eccessivo. L’offerta pubblica iniziale che ha spalancato a Mark Zuckerberg le porte di Wall Street ha fruttato commissioni milionarie alle banche che hanno seguito l’azienda nell’operazione: Morgan Stanley, JP Morgan e Goldman Sachs.
SETTEMBRE, NEGLI USA E’ BATTAGLIA SULLA VOLKER RULE. Almeno un centinaio di deputati e senatori degli Stati Uniti, rivela il New York Times, starebbero agendo dietro le quinte per soddisfare i propri lobbisti e sabotare la Volcker Rule, la norma chiave della legge di riforma della finanza americana. La normativa mira a proteggere il denaro dei correntisti dagli investimenti speculativi, quel proprietary trading, per intenderci, con il quale JP Morgan aveva finanziato le sue tragiche operazioni sui derivati. In piena campagna elettorale lo scontro è più che mai in atto.
OTTOBRE, FONDI AVVOLTOIO CONTRO L’ARGENTINA. Le autorità del Ghana bloccano nel porto di Tema la nave argentina Libertad ordinandone il sequestro per un possibile pignoramento. Dietro al provvedimento c’è il fondo-avvoltoio NML, controllato dalla Elliot Capital Management, una società finanziaria registrata nelle isole Cayman. NML aveva acquistato anni fa alcuni tango bond in default rifiutando il concambio e pretendendo un risarcimento. A novembre il giudice Thomas Griesa del tribunale di Manhattan darà ragione al fondo ordinando alle banche statunitensi intermediarie delle operazioni di bloccare i pagamenti degli interessi ai detentori di obbligazioni ristrutturate in attesa dell’effettivo rimborso a NML e agli altri creditori dissidenti. La sentenza definitiva è prevista per il 27 febbraio 2013. Se la decisione del giudice dovesse essere confermata, Buenos Aires rischierebbe un nuovo fallimento e il precedente legale potrebbe complicare non poco i piani della Grecia che a marzo aveva formalizzato la sua ristrutturazione debitoria.
NOVEMBRE, LE BANCHE OMBRA VALGONO COME IL PIL DEL MONDO. Sessantasettemila miliardi di dollari, più o meno il controvalore ai tassi di cambio ufficiali del prodotto interno lordo globale. A tanto ammonta la dimensione del sistema bancario ombra, o “shadow banking”, calcolata dal Financial Stability Board di Basilea. Il comparto, che comprende l’attività di intermediazione che sfugge al sistema bancario e le cartolarizzazioni dei crediti costruite sui derivati (in pratica l’innesco della crisi globale) è in continua crescita. Ed è tuttora scarsamente regolamentato.
DICEMBRE, LA GRANDE INCOGNITA DEL FISCAL CLIFF USA. Gli Stati Uniti spendono ogni anno 3.600 miliardi incassandone solo 2.300. Ne deriva uno sbilancio da 1.300 miliardi che impone 109 miliardi di tagli all’anno nel corso del prossimo decennio. È lo snodo centrale del fiscal cliff (letteralmente “baratro fiscale”) statunitense, il principale problema allo studio dei policy maker di Washington, ma anche il terreno di scontro tra democratici e repubblicani. Sul tavolo l’accordo per il programma di tagli e tasse con l’incognita dell’effetto recessivo su un’economia in lenta ripresa. Europa docet, ovviamente. Ma anche no.