Siamo costretti a tornare sull’argomento delle tasse universitarie per riprendere l’articolo del New York Times: “For Poor, Leap to College often Ends in a Hard Fall”. Da diverso tempo in Italia si moltiplicano le dichiarazioni di chi vuole aumentare le tasse universitarie alla cifra di 7mila o 10mila euro l’anno da un valore medio di circa 1400 euro/anno. Per supportare questa tesi si parte da una ipotetica “verità incontrovertibile”: in Italia i poveri pagano l’università ai ricchi, e l’unico modo per porre fine a tale “macroscopica e odiosa ingiustizia” è liberalizzare le tasse universitarie e introdurre prestiti d’onore proprio per permettere agli studenti di pagarle. Abbiamo già discusso la questione diverse volte, spiegando come non sia affatto vero che i poveri pagano l’università ai ricchi. Vogliamo dire di più: liberalizzare le tasse e introdurre prestiti d’onore non aiuta i meno abbienti, li penalizza. A questo proposito segnaliamo un lungo articolo del New York Times, secondo il quale negli Stati Uniti l’università non aiuta i meno abbienti né aumenta la mobilità sociale. Al contrario, tasse elevate e prestiti d’onore inibiscono la mobilità sociale e producono diseguaglianza. “I ricchi sono avvantaggiati e la diseguaglianza tra ricchi e poveri sta crescendo”, recita l’articolo.
L’articolo narra la storia di Angelica Gonzales, figlia di immigrati messicani, e delle sue amiche Bianca e Melissa, tutte lower class e low income, che quattro anni fa si sono iscritte rispettivamente a Emory, in un community college e alla Texas State University. “Sembrava come dovessimo spiccare il volo, da una vita all’altra”, dice Melissa. Quattro anni dopo, scrive il New York Times, “la loro storia sembra non tanto un tributo alla mobilità verso l’alto ma uno studio degli ostacoli che uno studente deve affrontare in un’epoca di crescente diseguaglianza economica. Nessuna di loro ha ottenuto una laurea in quattro anni”, spiega il giornale, piuttosto “una sola continua a studiare a tempo pieno e le altre due hanno debiti insostenibili. Angelica, che ha lasciato Emory con un debito di 60 mila dollari, fa l’impiegata in un negozio di mobili di Galveston. Tutte hanno […] dimostrato di eccellere. Ma il bisogno di guadagnare implica una serie di vincoli”.
Angelica, studentessa “straordinariamente brillante e dedicata”, è piena d’entusiasmo al momento dell’iscrizione a Emory, università in cui la retta normalmente costa circa 50 mila dollari l’anno. “Quante volte nella vita ti capita l’occasione di reinventarti completamente”, si chiede Angelica prima di iscriversi. Angelica ha ragione, scrive il New York Times: “solo il 30% degli studenti nell’ultimo quartile di reddito si iscrive a una laurea di quattro anni, e di questi se ne laureano meno della metà”. Eppure, quattro anni e mezzo dopo, Angelica e Melissa hanno 105 mila dollari di debito, mentre le loro famiglie hanno un reddito annuo rispettivamente di 35 e 27 mila dollari.
Di fatto, lungi dall’aiutare i cosiddetti “meritevoli ma privi di mezzi”, il prestito d’onore condiziona l’intera carriera universitaria, disincentivandola e ostacolandola. Oggi: “gli studenti che in terza media avevano risultati superiori alla media pur provenendo da famiglie con reddito più basso della media, arrivano alla laurea nel 26 per cento dei casi – una percentuale inferiore a quella dei laureati provenienti da famiglie abbienti con risultati peggiori. Trent’anni fa, c’era una differenza di 31 punti percentuali tra la quota di studenti ricchi e poveri che arrivavano alla laurea. Ora il divario è di 45 punti”, recita il New York Times. È uno degli esempi di quella che l’editorialista David Brooks, rifacendosi al lavoro dell’eminente politologo di Harvard Robert Putman, ha definito la “biforcazione” della società americana, quel processo di produzione di diseguaglianza che inizia precisamente nell’istruzione.
La storia di queste studenti, scrive il New York Times, è “la storia di qualcosa di più ampio”. Indica: “il ruolo crescente che l’istruzione gioca nel proteggere le divisioni di classe. […] L’istruzione, una forza pensata per erodere le barriere di classe, sembra oggi aumentarle”. “Tutti pensano all’istruzione come uno strumento di eguaglianza”, dice Greg J. Duncan, economista alla University of California, Irvine, “il luogo in cui inizia la mobilità sociale“. Ma quanto avviene è il contrario. “Pressoché tutti gli indicatori che abbiamo mostrano che il divario tra ricchi e poveri sta aumentando. È avvilente”.
Secondo Matthew M. Chingos della Brookings Institution, oggi la classe di appartenenza incide sul futuro dei singoli di più della razza di appartenenza, dato assai significativo in un paese che ancora porta le cicatrici dello schiavismo. “Gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito finiscono l’università meno spesso dei coetanei ricchi, anche quando dimostrano abilità maggiori“. La cosa frustrante è che “si tratta di studenti che hanno già dovuto superare ostacoli significativi per avere risultati al di sopra della media”, ha detto Chingos. “Vedere che pochi sono messi in condizioni di arrivare alla laurea è davvero fastidioso”.
Insomma, più che essere una soluzione, liberalizzare le tasse e introdurre il prestito d’onore pare aumentare quella “macroscopica e odiosa ingiustizia” che sulla carta si vorrebbe prevenire. In particolare in Italia, c’è una sola soluzione per aumentare la mobilità e l’eguaglianza sociale a partire dall’università: sostenere le famiglie con reddito pari o inferiore ai 40,000 euro, aumentare la fasciazione delle aliquote, porre fine a quella anomalia tutta italiana che sono gli “idonei senza borsa”, e rifinanziare l’istruzione a partire dal diritto allo studio.
Questo articolo è coautorato da Francesca Coin e Francesco Sylos Labini