Se si vuole ragionare realisticamente (senza perdersi nei fanatismi integralistici da setta religiosa, sempre in agguato) il tema più pressante dell’Altrapolitica in procinto di andare alla verifica elettorale di febbraio è quello di come far ‘viaggiare separati per colpire uniti’ i due portabandiera Beppe Grillo e Antonio Ingroia, con relativi seguiti di supporter.
Infatti questa volta ci sarebbero concrete condizioni per infliggere perdite consistenti all’esercito di occupazione della democrazia che la pubblicistica corrente ha denominato ‘Casta’: la mutazione della classe politica in corporazione indifferenziata del Potere, cementata dalla solidarietà nel tutelare le comuni condizioni di sopravvivenza e i relativi privilegi; tutto ciò attraverso la sequenza interminabile (quanto apparentemente immotivata) di salvataggi reciproci e collusioni inconfessabili che hanno marcato nel profondo la Seconda Repubblica, vanificandovi ogni ipotetica potenzialità di autorigenerazione.
Una situazione patologica resa possibile in quanto da tempo la legittimazione del potere è diventata autoreferenziale, prescindendo dal consenso popolare declinante e aventiniano: la prassi spudorata che mette al riparo dalla crescente disaffezione elettorale spartendo – come se niente fosse – gli organigrammi pubblici sulla base dei voti residui.
Per una strana combinazione astrale e per l’eterogenesi di fini diversi, il comico ligure e il magistrato siciliano possono minare il meccanismo perverso scagliandogli contro l’altro elemento democraticamente degenerativo di questi anni: il divismo.
Praticata in maniera sfrenata da Silvio Berlusconi, la politica dello star-system trova in Grillo e Ingroia gli ultimi epigoni. Con tutte le riserve nei loro confronti (e le preoccupazioni legittime che si possono nutrire per ‘il dopo’), visto che il primo sta lasciando trapelare tutti i difetti padronali di un cinico imprenditore mediatico (supportato dal solito consulente di comunicazione del milieu milanese, specializzato nell’impacchettare banalità tirapacchi); l’altro conferma che la magistratura – con i suoi riflettori – è sovente una sirena che induce (se non vogliamo dire ‘deliri d’onnipotenza’) almeno sindromi narcisistiche da salvatore della patria. Effetti il cui combinato disposto si traduce nel criticabile andazzo di assumere incarichi internazionali di grande responsabilità, per poi rapidamente metterne a frutto il prestigio con repentini ritorni nel cortile di casa (e questo vale tanto per l’Ingroia guatemalteco come per l’ex eurodeputato di Stasburgo De Magistris).
Lo si ricorda per dire che dalle nostre parti non ci sono messia biancovestiti ma solo e sempre umani impastati nelle debolezze. Che però innescano processi carichi di potenzialità positive. Come quello di mettere in contraddizione la collusività con il divismo e – così facendo – colpire la corporazione partitica nell’unico suo punto sensibile: gli organigrammi dove piazzare il proprio personale. Se l’Altrapolitica conquisterà un 20 per cento di posti sarà una bella sottrazione di spazio vitale ai cacicchi del Palazzo, che potrebbe innescare effetti implosivi salutari.
Ma perché i due divismi diventino liberatori occorre che non si elidano a vicenda. Anche in quanto pescano in bacini non completamente sovrapponibili. In particolare Ingroia può recuperare pulsioni di sinistra radicale mandate in paranoia dai postmodernismi di Grillo sul ‘dopo e oltre sinistra e destra’, gli arancioni sembrano meglio piazzati nell’intercettare le priorità attribuite alla questione sociale (security) e i Cinquestelle alla questione ambientale e relativa incolumità (safety).
Il problema è – dunque – quello di non pestarsi i piedi individuando possibili sinergie. Il timore è che il disegno personale possa avere la meglio sul processo inintenzionale.