Sono poco più di ventimila i profughi giunti nel 2011 in Italia che hanno fatto domanda di protezione internazionale e che sono stati accolti all’interno del piano della cosiddetta emergenza Nord Africa. Sono scappati dal loro Paese di origine (Nigeria, Ghana, Mali, Somalia, Costa D’avorio, Pakistan, Sudan, Bangladesh…) dopo essere stati feriti con pistole, coltelli, bastoni o cocci di bottiglia. Hanno visto e subito ogni tipo di violenza. Hanno perso casa, lavoro e affetti in pochi minuti. Sono stati inseguiti e imprigionati. Sono stati torturati, minacciati e violati in ogni modo. Per questioni etniche, religiose, sociali e familiari. Sono sopravvissuti a tutto. Al dolore, alle ferite, alla fuga. Sono scappati con ogni mezzo: a piedi o nascosti su camion. Hanno attraversato deserti e mari. Sono partiti in 100 ed arrivati in 10. E poi di nuovo, in Libia, sono stati inseguiti, imprigionati e picchiati, caricati a forza su barche di fortuna. Incastrati l’uno sull’altro, a centinaia. Notti e giorni sul mare, nel buio, nel freddo, nella sete, nella paura. Loro e nostro malgrado verso l’Italia.
Sono questi i profughi dell’emergenza nord Africa. Hanno vissuto fino a pochi giorni fa nel timore di essere ricacciati indietro verso le violenze da cui sono scappati o verso una terra, la Libia, che non li ha mai voluti e che non li riconosce come rifugiati perché non ha ancora ratificato la convenzione di Ginevra del 1951. Molti di loro, intervistati dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato, hanno ricevuto un rifiuto di protezione e dunque di permesso di soggiorno, secondo le indicazioni del nostro Governo. Riuscire a “superare” l’intervista in Commissione è stata per molti una prova impossibile e fallimentare e lo stesso dicasi per l’interrogatorio davanti al giudice in sede di ricorso avverso il rifiuto. Sono stati costretti, in pochi minuti e davanti estranei, a raccontare l’indicibile e a ricordare ciò che nessuno vorrebbe aver vissuto né vorrebbe ascoltare. Sono stati accusati di essere vaghi, imprecisi. Di raccontare storie inverosimili. E così i loro racconti, inaccettabili perché abominevoli, sono rimasti di fatto inascoltati e le loro richieste di protezione respinte. E’ per questo che per oltre un anno si sono raccolte firme per chiedere al Governo di disporre il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari in favore di tutti i profughi della cosiddetta emergenza Nord Africa.
Solo a due mesi dalla scadenza del termine dell’emergenza il governo, con una serie di circolari, ha deciso di dare la possibilità ai profughi “rifiutati” di chiedere alla Commissione competente di riesaminare le loro domande di protezione per evitare che al 31 dicembre scorso migliaia di richiedenti asilo si trovassero senza permesso e dunque irregolari ed in mezzo a una strada. Le procedure sono state attivate in fretta e furia dal mese di novembre e buona parte dei profughi (ovviamente quelli ancora in contatto o ospiti delle strutture di accoglienza e dunque in qualche modo rintracciabili) si sono ripresentati in questura, hanno compilato altri moduli e i più fortunati hanno già messo in tasca l’agognato permesso di soggiorno per motivi umanitari o per protezione sussidiaria.
In poche settimane si è cercato di fare, compulsivamente, quello che non si è fatto in un anno e mezzo di colpevole e costosa inerzia. E allora viene da chiedersi: perché non darlo subito un permesso di soggiorno umanitario? Perché spendere tempo, denaro ed energia? Perché tenere in eterna emergenza migliaia di persone per un anno e mezzo? Perché occupare questure, commissioni, tribunali, avvocati, interpreti per mesi, a spese nostre (in termini di denaro) e loro (in termini di ansia, difficoltà e disorientamento)? Perché il nostro governo è da sempre incapace di trattare il tema dell’immigrazione se non in termini di emergenza? Queste persone sono state minacciate per mesi di essere ricacciate indietro. Sono state rifiutate in ogni modo. Gli è stato rifiutato il permesso e gli è stato periodicamente intimato di abbandonare i luoghi di accoglienza. Come potevano investire sul loro futuro se gli veniva negato? Come potevano integrarsi in un Paese che non li voleva? Fino a ieri si è detto che al 31 dicembre sarebbero stati tutti messi definitivamente in mezzo a una strada. Sono scoppiate rivolte represse con violenza.
Ora si è fatta per l’ennesima volta marcia indietro. Per altri due mesi pare che verrà offerto a queste persone ancora un tetto sopra la testa ma la gestione passerà dalla protezione civile alle prefetture. Per sottolineare come il “problema” sia, secondo chi ci governa, non più una calamità naturale (tipo: piovono profughi) ma di ordine pubblico. E quindi da gestirsi di conseguenza. Con la forza.
Un anno e mezzo di pessima accoglienza ci è già costato un milione e 300 mila euro, il dileggio internazionale (“paradosso italiano” titolava il New York Times) e la sofferenza di migliaia di persone che rischia ogni giorno di sfociare in rabbia.
Ci hanno “mangiato” gli enti gestori di molte strutture che hanno preso soldi non per accogliere ed integrare ma per lucrare sull’emergenza: ammassando profughi in strutture inidonee, sfruttandoli ed affamandoli. Tanto in Italia nessuno controlla come vengono spesi i soldi pubblici.
Mettere, oggi o tra due mesi, i profughi in mezzo a un strada senza aver permesso loro di integrarsi e di rendersi autonomi vuol dire ingrossare le file dei senza fissa dimora, o dei detenuti nei Cie e nelle carceri (con ulteriore danno e costo).
E così sta succedendo fuori dalle strutture che hanno già chiuso i battenti per incapacità, malafede o perché abbandonate dalle istituzioni.
E cosa succederà tra due mesi, quando tutte le strutture chiuderanno?
Me lo chiedono i direttori “per bene” di diverse strutture liguri, me lo chiedono le decine di profughi che ho imparato a conosere in questi mesi. Me lo chiedono in un misto di agitazione e rabbia. Me lo chiedono toccandosi la testa, perchè non ci capiscono più niente. Mi dicono, i profughi, che nella loro testa c’erano molte buone cose e potenzialità ma a tenerli fermi nella paura e nell’incertezza per mesi, si sono perse.
Intanto a Lampedusa gli sbarchi non sono mai finiti. Si separano i morti dai vivi e i vivi vengono rinchiusi e dimenticati per settimane nella costosa gabbia di Contrada Imbriacola. Nell’indifferenza di molti.
Ma non di tutti.
La sindaco di Lampedusa giorni fa, ricordando i morti che il mare consegna alla sua Isola scriveva: “Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti… Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore… Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza”.
Intanto Stefano Rodotà giovedì scorso sulle pagine de La Repubblica si indignava della scarsa attenzione ai diritti umani nell’agenda Monti. Ecco, io vorrei essere governata da persone così, che capiscono che tutelare i diritti umani non è solo un dovere ma è la scelta più intelligente, dignitosa e vantaggiosa per il nostro Paese.