Trovo esagerata, sotto molteplici aspetti, l’importanza che viene data in questi giorni all’avvicinamento (o riavvicinamento) di molti nostri politici a Facebook, a Twitter, a un Blog o ad altri strumenti cosiddetti “social”. Non mi riferisco solamente ai due casi più recenti, Monti e Berlusconi, ma all’utilizzo fatto in questi ultimi due anni da molti (non tutti, per fortuna) politici.
In particolare, i seguenti sono gli aspetti che trovo più imbarazzanti (e penso di non essere il solo):
1. Mancanza completa di conoscenza culturale dello strumento utilizzato
Fa sorridere osservare uno staff ben vestito spiegare a un politico (o a una politica) analogico/a come si premano dei tasti su un tablet o su un netbook, a cosa serva un retweet, come si faccia a mettere la chiocciola prima di un nome, e non si investa tempo, invece, a illustrare a quella persona la storia, e la cultura, che sta dietro a questi strumenti, ossia l’essenza, anche giuridica, degli stessi. È ben più importante comprendere come sono nati, e a cosa possano servire, più che insegnare una sequenza di tasti per, poi, fare una foto della pressione del tasto. Quasi tutti i politici italiani si sono disinteressati, nel corso degli anni, ai diritti di libertà (soprattutto di manifestazione del pensiero) correlati a Internet e alle nuove tecnologie proprio perché, molto spesso, non conoscevano neppure le tecnologie di cui si stava parlando. Oggi, più che insegnare ai politici a premere dei tasti (alcuni video su YouTube mostrano che anche un neonato o una scimmia, se ben addestrati, possono in pochi minuti riuscire a usare un dispositivo touch…), sarebbe il caso di spiegare loro i diritti che sono alla base di questi strumenti (e magari domandare loro il motivo per cui questi diritti non sono mai stati tutelati).
2. Disinteresse completo al dialogo, e interruzione del percorso elettronico cittadino-politico
Siamo chiari: un politico che raccoglie 100.000 follower al giorno lo fa unicamente per avere un parco di destinatari cui mandare i propri messaggi, non per instaurare un dialogo. Non solo perché sarebbe impossibile, anche per uno staff serio, gestire un traffico con un simile tasso di crescita, ma perché l’esperienza insegna che la maggior parte dei blog, dei tweet e degli status di Facebook non è mai stata usata dalla maggior parte dei politici italiani come strumento di dialogo, ma come strumento unidirezionale di comunicazione di notizie, spesso inutili o già note. I blogger veri, gli utilizzatori di Twitter “hard-core” e gli status su Facebook vivaci che più apprezzo sono quelli che mantengono vivo un dialogo. Sono sempre più rari, ma sono persone che rispettano l’essenza del mezzo. Nella maggior parte dei casi, il titolare politico dell’account “lancia nel mare” il suo pensiero, o posta sul blog, e va avanti, non si ferma a dialogare. Il ricordo va a politici che, nell’era pre-digitale del francobollo, ricevevano centinaia di lettere, e facevano redigere le risposte allo staff. Oggi, con i numeri attuali, è chiaro che accendere un dialogo digitale è per loro l’ultimo interesse.
3. Filtraggio discrezionale dei tweet o dei commenti cui rispondere
Le riposte ai tweet da parte dei politici sono spesso “di scena”. Si prendono una manciata di tweet che siano educati, che non pongano questioni complesse, che non creino imbarazzo, e si fa rispondere il politico. Ma che senso ha una cosa simile? A chi serve? Al politico, per far vedere che dialoga con i suoi elettori in un dialogo, però, che è finto. Certo, Twitter fa sì che all’account del politico possano arrivare considerazioni visibili a tutti, ma se il politico è il primo a non assimilarle, a cosa servono? Con così tante domande, anche la risposta è sempre più un fatto di forma, e di pubblicità, e non di sostanza.
4. Inutilità delle questioni comunicate
Da semplice cittadino, trovo rarissimi i tweet politici di qualche utilità. Sono semplici comunicati-stampa simili a quelli di agenzia e che interessano forse a notisti politici o a curiosi. Soprattutto se a questi comunicati non viene data risposta. Ho apprezzato, al contrario, l’utilità di tweet di amministrazioni politiche in caso di emergenza neve o ghiaccio, o di coordinamento di aiuti in condizioni particolari. Ma la diffidenza nei confronti dello strumento, e il narcisismo tipico del politico, porteranno sempre questi tweet a essere per molti versi inutili. O utili, tutt’al più, a generare gossip.
5. Cosa c’entra Obama?
Leggo, da molte parti, che questo avvicinamento dei politici italiani (meglio: degli staff dei politici italiani) a Twitter, celebrato quasi come un Rinascimento Digitale della nostra politica, dovrebbe ricordare l’uso rivoluzionario fatto da Obama in campagna elettorale dei social network. Ma forse ci si dimentica che il cuore dell’azione di Obama (e la parte più costosa) fu la creazione di un database enorme che potesse catalogare interessi di potenziali elettori, e di contribuenti, in tutti gli Stati. Lo strumento social era anche il mezzo per arrivare a sapere che cosa l’elettore volesse, la strada per arrivare al suo contributo e al suo voto, per programmare azioni politiche ritagliate sul potenziale elettore. A me sembra che, nel nostro caso, si sia lontani anni luce da una simile strategia.
6. Iniziative a scadenza
Molte di queste iniziative, l’esperienza ci insegna, sono a scadenza. Vengono annunciate in pompa magna in periodo pre-elettorale, quando i temi contenuti nei tweet sono pressoché inutili, e improvvisamente si sgonfiano quando al cittadino interesserebbe davvero comprendere cosa stia succedendo, quando un tweet da una “stanza del potere” potrebbe realmente spiegare cose interessanti.