Il naturalismo, nelle sue diverse declinazioni, si riconosce nella celebre sentenza di Protagora: “La scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono”. L’unico ruolo che la filosofia può ritagliarsi, quindi, sta nel collocarsi in assoluta continuità con questa pretesa-aspirazione: risolversi, naturalizzandosi, nella scienza.

Il saggista, invece, coltiva un’ambizione completamente diversa: ritiene che l’arte sia una lente di ingrandimento della realtà. Per il saggista, cioè, la mediazione estetica è una condizione pregiudiziale della conoscenza. È il caso di personalità novecentesche come Lukács e Adorno, come Bloch e Benjamin.

Queste due prospettive possono trovare un punto d’incontro?

È molto difficile, ma esistono situazioni eccezionali in cui questo può accadere. 

Ne approfondisco, in particolare, una relativa al grande romanzo del biologo William Jordam, Un gatto di nome Darwin, ristampato da poco presso Orme Edizioni (Roma 2013). Vi si narra l’esperienza vissuta di una ‘comunione’ con un gatto che viene giudicata ‘irreversibile’: “Chi la raggiunge ne è cambiato per sempre e non può tornare sui suoi passi, perché la mente, l’anima, perfino il ‘terzo occhio’ sono prodotti dalla sostanza materiale del cervello, e quella sostanza è stata modificata”.

Il naturalista, presumendo che la condizione conoscitiva compiuta sia solo quella scientifica, viene modificato in profondità – in primo luogo, come uomo, e, poi, come intellettuale – da quell’esperienza: “Quando il tuo compagno muore, il dolore è quasi intollerabile. Più a lungo e più profondamente l’hai amato, più alto è il prezzo che devi pagare. È come se avessero amputato una parte di te, senza anestesia”.

La stessa lacerazione che ho vissuto direttamente con la morte delle mie adorate gattine Carlotta e Camilla. Ricordo ancora la notte del 27 dicembre 2005 quando, disperato, riuscii a salvare Carlotta con l’ausilio di una clinica veterinaria: non l’ho lasciata neppure per un istante e, alle 3 della mattina, l’ho finalmente riabbracciata e riportata a casa. Credevo di aver allontanato la fine e, invece, neppure dopo due settimane, esattamente nel tardo pomeriggio del 10 gennaio 2006, l’ho perduta per sempre.

Lo stesso è accaduto con Camilla, 5 anni, otto mesi e venti giorni dopo. Alla fine di un settembre caldissimo di un’estate esplosa in ritardo, esattamente il 26 settembre del 2011, l’avevo fatta visitare e il veterinario mi aveva rassicurato sulle sue condizioni di salute. Ma la mattina del 28 settembre, solo dopo trentasei ore dalla visita, mentre arrivavo in un’altra città, muore tra le braccia di mia moglie.

Anche per me – che mi sono sempre ispirato al saggismo novecentesco e che ho sempre considerato le arti un tramite imprescindibile della conoscenza – si è trattato di una lacerazione irreversibile. Ho perduto per sempre un rapporto che mi aveva mutato nel profondo. Una comunione ed una perdita che rendono solidali, fino in fondo, il naturalista ed il saggista, due intellettuali che hanno una visione del mondo profondamente diversa.

Un legame che è fondato sulla reciprocità, basti ricordare quei momenti magici in cui Carlotta stringeva la sua zampetta tra le mie mani. Lo racconta Danilo Mainardi sul Corriere della Sera del 2 gennaio 2013, in un articolo molto intenso dal titolo Quando gli animali non si rassegnano dopo l’abbandono. Il protagonista è Toldo, ‘un bel gatto dall’espressione pensosa’ che da un anno – da quando il suo padrone è morto – ogni giorno si reca sulla tomba, lasciando piccoli ‘doni’: rametti, foglie secche, stecchi, bicchieri di carta. In nome di una comunione indissolubile.

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