Ho appena concluso la lettura del famoso romanzo di Gustave Flaubert “Madame Bovary” e ho voluto annotare alcune sensazioni e considerazioni trasformandole in parole scritte.
La protagonista è Emma, una bella ragazza di campagna che accetta di sposare Charles Bovary, ufficiale sanitario. La donna crede di poter intraprendere con lui una vita che avrebbe potuto soddisfare i suoi bisogni e saziare i suoi desideri, imbevuti da anni di letture di romanzi e fantasie, ma scopre, alla fine, tutta la monotonia del suo matrimonio e la mediocre semplicità del suo compagno, che pur amandola sinceramente, non è minimamente in grado di colmare i vuoti di lei che si trasformano, pian piano, in voragini in cui tradimenti, malesseri ed estasi religiose la porteranno ad un tragico finale. Il racconto si svolge in Francia tra il 1827 e il 1846.
“Madame Bovary” è stato il primo e più clamoroso caso di censura operata su un’opera moderna, che una donna potesse fare quella vita e che se ne potesse scrivere è stato considerato un oltraggio alla morale pubblica. Nessuno scandalo per “l’immoralità” dei protagonisti uomini ed il loro modo di agire.
La figura sulla quale voglio soffermarmi non è tanto Emma, quanto Berthe, la figlia che nasce dal matrimonio con Charles. La bambina, una volta nata, è spesso presente nel racconto, ma sempre sullo sfondo, non una parola sui suoi sentimenti e su ciò che prova anche se si avverte come, per la madre, sia solo un capriccio da tenere o allontanare. Madame Bovary non prende mai in considerazione i bisogni della figlia, non è dato sapere neanche quanti anni abbia la bambina quando il racconto si conclude.
In poche righe, la vita di Berthe viene liquidata sul finale, rimane sola e mandata a lavorare in una filanda di cotone. L’ho considerata la figura più tragica del romanzo, un’assenza presenza forte.
Emma avrebbe voluto un maschio per poter riscattare il desiderio di emancipazione che, alle donne, a quel tempo, non veniva minimamente concessa. Un maschio sarebbe stata la sua affermazione e, quando invece nasce una femmina, “un’altra lei”, il dolore è grande. La figlia non meriterà l’affetto che la madre avrebbe voluto dare al figlio solo per via del suo sesso. Berthe non può emancipare Emma, in quanto donna. Il padre le vuol bene, ma la madre la usa solo per riempire i suoi vuoti, quando altre soluzioni si sono rivelate fallimentari.
Mi ha commosso ed intenerito il destino di questa immaginaria bambina e la sua innocenza, condannata dalla madre, quindi dal suo stesso sesso, ad essere un ripiego, un sogno infranto. Il pensiero va a tutte quelle donne che, come Madame Bovary, hanno dovuto vivere la condizione femminile come una gabbia tanto da vedere nell’uomo non solo il problema, ma anche la soluzione. Per Emma solo generare un uomo poteva essere un riscatto proprio dalla condizione in cui gli uomini l’hanno culturalmente e socialmente imprigionata, rifiuta il suo essere donna e rifiuta il suo essere madre di una donna.
Certo non siamo più nell’ Ottocento, anche se tanto ancora rimane da fare, ma romanzi come Madame Bovary ci aiutano ad entrare in quel mondo in cui l’altra metà del cielo è stata per tanto tempo relegata senza che la sua volontà di affermazione trovasse mai ascolto.
« Ma una donna ha continui impedimenti. A un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene. » |
(Madame Bovary) |
di Mario De Maglie