Entro la fine del 2013 finirà il sistema dei lavori forzati in Cina. E’ questa la notizia che riporta il South China Morning Post, giornale di Hong Kong, citando un funzionario di alto livello che a sua volta riporta una fonte autorevole: Meng Jianzhu, capo della commissione che all’interno del Partito comunista si occupa degli affari legali. Meng avrebbe dato l’annuncio della prossima fine del laodong jiaoyang (“rieducazione attraverso il lavoro”, abbreviata in laojiao), durante una riunione delle massime autorità giudiziarie del Paese. Una decisione che preannuncia uno scontro tra i potentati locali, che vivono anche del ‘business’ generato dal lavoro dei condannati, e il governo centrale.
Fuori dalla Cina ci si confonde spesso tra laogai e laojiao. Il primo termine designa la condanna penale ai lavori forzati, introdotta nel 1957 e abolita nel 1997. Il secondo descrive invece una pena amministrativa, comminata senza processo e che si traduce spesso in arbitrio. È il sistema ancora in vigore e che il Dragone si ripromette ora di abolire. Attualmente, secondo i dati diffusi dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, vi sarebbero sottoposte circa 190mila persone (i media cinesi parlano di 60mila), suddivise in circa 320 campi.
Lo laojiao ancora in vigore è concepito, in linea teorica, come uno sconto di pena per i piccoli criminali, che invece di finire in carcere andranno in speciali campi di lavoro. Oggi ai lavori forzati finiscono quindi sia piccoli criminali – pescati soprattutto nei giri della prostituzione e del traffico di stupefacenti – sia coloro che rientrano nell’ampio spettro degli attentatori ai danni dello Stato: dissidenti, membri di sette e religioni “sovversive” (come il Falun Gong), “terroristi” (secondo la lista internazionale dei gruppi eversivi stilata con supervisione e beneplacito Usa all’indomani dell’11 settembre 2001), o semplici cittadini che reclamano i propri diritti individuali, come i petizionisti che da tutta la Cina si recano a Pechino per sottoporre alle autorità le ingiustizie subite, vere o presunte che siano.
Il sistema tende poi a riprodursi perché i condannati, che percepiscono un modesto stipendio e conservano i propri diritti politici, producono con il proprio lavoro ricchezza per le amministrazioni locali. E la rete dei campi dà lavoro a decine di migliaia di persone. C’è poi l’indotto della mazzette pagate dalle famiglie per addolcire la pena dei propri congiunti. Insomma, la “rieducazione attraverso il lavoro” è un buon business. La pratica diffusa ha suscitato però proteste sia all’interno sia all’esterno della Cina. All’inizio, a battersi contro il sistema erano soprattutto i gruppi che difendono i diritti umani. In seguito, gli abusi sono stati sempre più denunciati anche dai diretti interessati.
Sono tutti casi che ci parlano di soprusi per interessi particolari e quello dei laojiao è diventato quindi un problema “sensibile”, perché va a destabilizzare l’operazione consenso con cui la leadership cinese cerca di accreditarsi. Un problema che fa rima con quello della diseguaglianza sociale, sempre più evidente e mal sopportata nella Cina di oggi. Come nel caso dell’80enne veterano, i media sono stati quindi sempre più incentivati a parlare del problema, preparando il terreno per la riforma. Sullo sfondo, c’è il conflitto strisciante tra la leadership di Pechino e i potentati locali, cresciuti spesso in un regime di accumulazione originaria favorita dall’incertezza del diritto. La condanna senza processo, amministrativa, è un ottimo strumento nelle mani del palazzinaro che ha messo gli occhi sui terreni dove sta la casa del privato cittadino (e che ha abbastanza soldi per ungere la polizia locale); del funzionario che vuole impedire al petizionista di raggiungere Pechino; del leader locale che intende insabbiare l’inchiesta sul proprio conto.
Il New York Times ha di recente citato alcuni casi paradossali. Tra questi, un lavoratore migrante della Mongolia Interna è stato condannato ai lavori forzati dopo aver litigato con un funzionario in un ristorante. Una madre dello Hunan si è presa 18 mesi di laojiao dopo avere protestato pubblicamente perché alcuni uomini, dopo aver violentato e costretto sua figlia di 11 anni a prostituirsi, avevano ricevuto una condanna all’acqua di rose. Un veterano della guerra di Corea 80enne, malato di Parkinson, è comparso in lacrime sulla televisione nazionale per avere trascorso 18 mesi in un campo di lavoro come punizione per suoi esposti contro la corruzione dei funzionari locali. E anche a seguito della risonanza mediatica, il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale, a novembre ha preso di mira il sistema del laojiao definendolo “strumento di rappresaglia” dei funzionari locali. L’ultimo tassello è stato il 18° congresso del Partito comunista, con il pensionamento di Zhou Yongkang, il falco capo della sicurezza interna, noto anche perché era solito terrorizzare gli alti dirigenti con lo spettro del caos sociale se il sistema penale extralegale fosse stato abolito.
di Gabriele Battaglia