Marina, 52 anni e una figlia ventenne, ha iniziato a occuparsi in modo approfondito di morte da quando, a 35 anni, ha avuto un tumore. “Ho capito di non essere immortale – confessa a Ilfattoquotidiano.it – e mi ha fatto crescere”. Dal 2001 al 2012 ha diretto la Fondazione Fabretti, una realtà di studio della morte quasi unica in Italia. “Abbiamo prodotto ricerca sulle cure palliative – spiega la studiosa – sul ruolo dei cimiteri, sui riti funebri. Abbiamo organizzato convegni e corsi di formazione e offerto un servizio di aiuto al lutto”.
![marina sozzi](http://www.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2013/01/marina-sozzi.jpg)
Autrice di “Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia” (190 pagine, Laterza), Marina sta scrivendo un nuovo libro per Chiarelettere. Ma cosa significa essere tanatologa, cioè studiare la morte, oggi? “Non è glamour. Per me significa guardare alla nostra società con occhiali diversi. Osservando come i cittadini affrontano la malattia, la morte o il lutto scopro le magagne di una cultura che ha eletto la ricchezza, il successo e la prestanza fisica a suoi valori prevalenti”, dichiara Sozzi. Secondo lei affrontare il pensiero della morte serve a vivere meglio, a “sistemare le priorità della vita, stare nel presente e goderne”. Per questo ha aperto un blog “Si può dire morte”: “Non è un blog per addetti ai lavori – dice – anzi intende raccogliere le riflessioni di tutti, e contribuire a stimolarle. Occorre una consapevolezza collettiva di quali siano le conseguenze del silenzio sulla morte cui ci condanniamo”.
La privatizzazione e la rimozione della morte iniziano, simbolicamente, durante la prima guerra mondiale, quando i segni esteriori del lutto, come gli abiti neri per le donne, vengono scoraggiati per non abbattere il morale dei Paesi belligeranti. “Non solo in Italia – specifica Sozzi. E continua – Inoltre nel 1915 Freud scrive “Lutto e melancolia”, che dà inizio all’interpretazione del lutto come “lavoro”, “elaborazione” individuale e intrapsichica”. A rimuovere il pensiero della morte ha contribuito anche il progresso della medicina: “L’aspettativa di vita media è molto aumentata nell’ultimo secolo e così abbiamo potuto rimandare, fin sulla soglia della morte, il pensiero della fine nostra e dei nostri cari. Ma in ospedale si muore spesso senza riti, soli e angosciati: la morte posticipata, rimossa e delegata alla medicina è più che mai misteriosa. E l’ignoto fa paura”.
Durante le sue conferenze, Marina si trova di fronte a molti luoghi comuni. “Si pensa che sia buona educazione non parlarne con anziani e malati, che riflettere sulla mortalità sia inutile, tanto si muore. E che il rito sia una faccenda antica, superata dalla modernità”, racconta. I giovani però sono più aperti. “All’università mi sono stupita del numero e del coinvolgimento dei miei allievi” ammette. Le domande che le vengono rivolte più spesso riguardano l’eutanasia. “La maggior parte delle persone ha l’immagine di una spina da staccare, ma non è tutto qui. Le scelte di fine vita sono molte e costellano la vita: fare testamento, lasciare un testamento biologico, disporre delle proprie spoglie, donare gli organi; il luogo dove morire, il rito prescelto, la sedazione terminale”.