Era qualche anno fa in un campo profughi della Sierra Leone: non mi ricordo il nome, ma la bambina doveva avere dieci anni, era magra e aveva gli occhi sorridenti.
Era l’unica femmina del nugolo di bambinetti che attorniava il giornalista in visita alla tendopoli – alla periferia di Freetown, la capitale assediata – ingrossata da chi fuggiva dai “tagliatori di braccia”, i ribelli di Foday Shankoh, il guerrigliero dei diamanti di sangue. Le avevo chiesto da dove venisse, perché la sua famiglia era fuggita e alla fine, quale era il sogno che voleva realizzare una volta finita la guerra civile. “Poter mangiare tanto per diventare grassa e sposarmi”.
La bambina voleva diventare una ragazza tonda e florida, e il suo appetito non era tanto per fame, piuttosto per tradizione e immagine sociale: in tutta l’Africa le rotondità e i fianchi voluminosi restano simbolo di bellezza, legata alla fertilità e garanzia di prosecuzione della stirpe, tanto più in luoghi dove il cibo spesso scarseggia. E il momento più pericoloso della vita – per la madre e il bambino – è rappresentato proprio dalla nascita.