Tra teatro e inchiesta Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno duecenticinquanta euro al mese, che sarà al Teatro al Parco di Parma l’11 gennaio, continua da molti anni a denunciare lo scandalo delle generazioni perdute. Nel 2006 era un libro di Aldo Nove, dal 2008 è uno spettacolo ideato e diretto da Renzo Martinelli del gruppo milanese Teatro i e portato in scena da Federica Fracassi, attrice e allieva di Giulio Giorello e premio Ubu, Duse, Olimpici, e da Guido Baldoni, autore e esecutore dal vivo delle musiche. Lo spettacolo inaugura la rassegna “Il futuro del lavoro” organizzata a Parma dal Teatro delle Briciole insieme a Cgil, Cisl e Uil. Testimonianze, racconti e riflessioni a partire dell’inchiesta di Aldo Nove sono affidate all’attrice che dà voce ai personaggi e all’autore in un ruolo misto di interprete e investigatrice, con fortissima partecipazione del pubblico anche grazie alle musiche eseguite sul palcoscenico.
In Italia è difficile che uno spettacolo duri più di una o due stagioni, ma autore e interprete concordano: qui c’è un argomento che non passa mai di moda. “Ho fatto le prime interviste per il libro nel 2003 – spiega Aldo Nove – era già evidente che c’era una forte anomalia nel mondo del lavoro, ma se ne parlava molto poco. Poi le premesse si sono sviluppate, ma allora eravamo ancora molto ubriachi, in pieno berlusconismo, il gioco era quello di non guardare ai problemi, di fare finta che fossero tutti disagi individuali”. “Anche la forma dello spettacolo è precaria – incalza Federica Fracassi – si modifica secondo le situazioni, ora in scena siamo due, attrice e musicista, ma lo abbiamo fatto in tre, abbiamo chiamato le bande di paese, Aldo ha riscritto parti del testo seguendo le cronache e ascoltando il pubblico”.
E come reagiscono gli spettatori?
Fracassi: “Nello spettacolo ci sono momenti aperti, di improvvisazione, in cui dialoghiamo con il pubblico. Chiediamo quanti precari ci sono in sala e la gente alza la mano, si arrabbia, ride, una volta, con la banda, c’è stato un ballo liberatorio. Dopo vengono nei camerini a dire che si sono riconosciuti, si raccontano. Queste storie sono di tutti: oggi non c’è più la lotta di classe, la grande storia collettiva, ma ogni storia diventa la Storia con la S maiuscola. Così si crea un rapporto paritetico insolito in teatro, c’è molta freschezza”.
Nove: “Trovo molto stimolante il rapporto con l’attrice e il regista. Lavoriamo sulle reazioni del pubblico ma anche sulle dinamiche sociali per trovare i punti del lavoro in cui deve emergere qualcosa di nuovo da far vivere nello spazio e nel tempo della messinscena. È anche una specie di terapia di gruppo, di autocoscienza non psicanalitica, ma sociale”.
Che cosa è cambiato, dal vostro osservatorio, in questi anni?
Nove: “Oggi c’è un senso più forte di comunità, non c’è più la vergogna di ammettere i problemi. Ci si sente sempre meno fuori dal coro”.
Il titolo è meno immaginifico di quelli di altri libri di Aldo Nove. È una scelta legata al carattere del testo?
Nove: “Non l’ho inventato io, non c’è stata elaborazione, è nato per empatia: è la prima frase che mi ha detto la prima persona che ho intervistato nel 2003”.
La rassegna “Il futuro del lavoro” proseguirà con Morir sì giovane e in andropausa di di Dario De Luca (anche interprete) e Giuseppe Vincenzi (1 febbraio) e Ribellioni possibili di Luis Garcìa-Araus e Javier Garcìa Yagüe (15 marzo), tutti gli spettacoli al Teatro al Parco con inizio alle ore 21.
Informazioni e prenotazioni sul sito delle Briciole: http://www.solaresdellearti.it/