Il presidente della commissione Antimafia: "Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: il Ros voleva far cessare le stragi, la criminalità organizzata voleva svilupparle fino a piegare lo Stato". Nella relazione esclusi da questi contatti i vertici delle istituzioni. E sull'attentato a Falcone: "Cosa Nostra ebbe 'consulenze esterne'?". Leggi il testo integrale
“Sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto”. Lo dice Beppe Pisanu a conclusione della inchiesta sulla trattativa e le stragi del ’92-93 da parte della commissione Antimafia della quale il parlamentare sardo è presidente. Possiamo dire – spiega Pisanu nella sua relazione conclusiva – “che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato”.
Ecco come, secondo la relazione, si svilupparono questi contatti. “La trattativa Mori-Ciancimino partì molto probabilmente come un’ardita operazione investigativa che, cammin facendo, uscì dal suo alveo naturale. Ne uscì, forse, per imprudenza dei carabinieri e ancor di più per ambizione di Vito Ciancimino“. Ciancimino, infatti, “aveva tutto l’interesse a elevare i propri contatti al rango di vero e proprio negoziato tra Stato e mafia, col proposito di porsi come intermediario e trarre vantaggi personali dall’una e dall’altra parte. Per questo richiese con insistenza interlocuzioni politico-istituzionali che però non ottenne”. E Cosa nostra? Secondo la relazione di Pisanu, “acconsentì alla trattativa e pose con il ‘papello’ le sue condizioni. Tuttavia si mantenne su una posizione di forza, innalzando la minaccia delle stragi. I carabinieri, anche sollecitati da Ciancimino, cercarono coperture politiche e, per quanto ne sappiamo, non le ottennero”.
Ecco allora la sintesi della vicenda: “In conclusione possiamo dire che i carabinieri e Vito Ciancimino -conclude Pisanu- hanno cercato di imbastire una specie di trattativa, Cosa nostra li ha incoraggiati senza abbandonare la linea stragista”, mentre lo Stato “nei suoi organi decisionali non ha interloquito ed ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale”.
E Pisanu avanza una serie di irrisolte domande: “Piegarlo fino a qual punto? All’accettazione del papello o di qualche sua parte? A rigor di logica e a giudicare dai fatti, non si direbbe. Se Cosa nostra accettò una specie di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c’è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni ottanta, dando luogo ad una controffensiva della magistratura, delle forze dell’ordine e della società civile che non aveva precedenti nella storia. Certo, l’obiettivo era ambizioso, ma il momento, come ho già detto, era propizio per la mafia e per tutti i nemici dello stato democratico”.
La mafia per le stragi, afferma Pisanu, “di certo non prese ordini da nessuno, perché ha sempre badato al primato dei suoi interessi e all’autonomia delle sue decisioni. Tuttavia, quando le è convenuto, quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali”. Pisanu cita come “riscontro” di questa affermazione la partecipazione della mafia, insieme ad esponenti della massoneria, al golpe di Junio Valerio Borghese; alla simulazione del rapimento del finanziere Michele Sindona, ospite invece della borghesia mafiosa palermitana; alla strage del “Rapido 904”, per la quale furono condannati all’ergastolo, oltre al cassiere della mafia Pippo Calò, esponenti della camorra, del terrorismo di destra e della banda della Magliana. “Non a caso, dunque, dopo le stragi del ’92 e ’93 gli analisti e i vertici degli apparati di sicurezza colsero subito il mutamento della strategia mafiosa di aggressione allo Stato e lo attribuirono ad una convergenza di ‘interessi macroscopici illeciti, sistemazione di profitti, gestione d’intese con altre componenti delinquenziali ed affaristiche, nazionali ed internazionalì,come disse il prefetto Parisi. “Sulla stessa linea, un rapporto della Dia del 1993, descrisse ‘un’aggregazione di tipo orizzontale’ composta, oltre che dalla mafia, da talune logge massoniche di Palermo e Trapani, da gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti”.
“Carabinieri e Ciancimino imbastirono una trattativa”
”I carabinieri e Vito Ciancimino hanno cercato di imbastire una specie di trattativa; Cosa nostra li ha incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito ed ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale” dice Pisanu. Inoltre – spiega – ”va detto che nessuno dei vertici istituzionali del tempo ha mai pensato di apporre il segreto di Stato su quelle vicende”.
“Con le stragi di mafia è partita la strategia della tensione”
Pisanu aggiunge che fu una vera e propria strategia della tensione. “Se nel ’92-’93, similmente ad altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, Cosa nostra ne fece parte. O meglio, fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio. Indebolire lo Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti”. “Certamente con le stragi del 1992-93 Cosa nostra inflisse allo Stato perdite irreparabili di vite umane e preziose opere d’arte, dimostrò la massima potenza di fuoco, ma segnò anche l’inizio del suo declino”, afferma ancora Pisanu nelle sue conclusioni. Infatti, subito dopo, la mafia “si è inabissata nella società, nell’economia, nella politica e da allora non è più riemersa con la forza delle armi; la sua leadership è stata decapitata e fino ad oggi non è neppure riuscita a ricostruire gli organi di governo; i suoi affari hanno subito il salasso continuo dei sequestri e delle confische dei beni; e in definitiva ha perso peso e prestigio anche rispetto ad altre organizzazioni criminali nazionali, come la ‘ndrangheta, tanto all’interno quanto all’estero”.
“Nella trattativa non entrarono i vertici delle istituzioni”
Secondo Pisanu “i vertici istituzionali e politici del tempo, dal presidente della Repubblica Scalfaro ai presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Penso che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto”. Rimane tuttavia ”il sospetto che,dopo l’uccisione dell’onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre Cosa nostra a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato”, aggiunge Pisanu nella sua relazione. “In particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l’incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col Comandante del Ros, il generale Subranni.
Su Mannino “pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia ad un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende su Marcello Dell’Utri. Occorre anche ricordare che Nicola Mancino, ministro dell’Interno dal giugno 1992 all’aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il ministero dell’Interno nel 1983, nove anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale”.
Ascoltato dall’Antimafia Mancino “è apparso a tratti esitante e perfino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Le posizioni degli ex ministri Mannino e Mancino sono ancora tutte da definire in sede giudiziaria: una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre. E’ doveroso aggiungere che l’on. Mannino è uscito con l’assoluzione piena da un precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Formalmente la trattativa si concluse nel dicembre 1992 con l’arresto di Vito Ciancimino”.
Un mese dopo, il 15 gennaio 1993, fu arrestato il capo dei capi Totò Riina. “Se i due arresti fossero riconducibili in qualche modo alla trattativa, quale sarebbe stata la contropartita di “cosa nostra”? La mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale sarebbe stato il guadagno dell’astuto mediatore Vito Ciancimino? Allo stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare risposte plausibili”, conclude Pisanu.
“Cosa Nostra forte, ma ha perso la sfida”
Con le stragi Cosa nostra inizio’ il suo declino “e in definitiva ha perso peso e prestigio anche rispetto ad altre organizzazioni criminali nazionali”. Certamente “è ancora forte e temibile. Ma dobbiamo pur riconoscere che dagli anni ’80 ad oggi, ha perso nettamente la sua sfida temeraria allo Stato” dice Beppe Pisanu. Infine un passaggio sull’attentato di Giovanni Falcone: “A Capaci fu necessaria una speciale competenza tecnica per realizzare un innesco che evitasse l’uscita laterale dell’onda d’urto dell’esplosione – dice – e la concentrasse invece sotto la macchina di Falcone. Mi chiedo: Cosa nostra ebbe consulenze tecnologiche dall’esterno?”.
Pisanu rivela nella sua relazione finale un aspetto finora inedito o dimenticato della uccisione del magistrato a Capaci. “Sulle scene degli attentati e delle stragi, abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste sconosciute, presenze esterne: da dove venivano? Gruppi politico-terroristici come “Falange Armata” rivendicarono tempestivamente degli attentati di Cosa nostra: come si spiega?” dice il presidente della commissione Antimafia. “Solo negli ultimi anni è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle indagini su via d’Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al tempo e a ben due processi: chi lo organizzò e perché furono lasciati cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi?”. “Potrei continuare con domande analoghe. Ma queste mi bastano per dire che, a conclusione della nostra inchiesta, non si sono ancora dissipate molte delle ombre che avevo già intravisto nelle mie comunicazioni alla Commissione del 30 giugno 2010. Noi conosciamo – conclude Pisanu – le ragioni e le rivendicazioni che spinsero ‘cosa nostra’ a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola”.
“Per Cosa nostra Borsellino era un muro da abbattere”. “Perché la mafia, abbandonando la sua proverbiale prudenza, decise di assassinare Paolo Borsellino proprio nel luglio 1992, a meno di due mesi di distanza dalla terrificante esplosione di Capaci? Una delle risposte plausibili è che Totò Riina volesse abbattere ad ogni costo quel ‘muro’ ideale che Borsellino aveva eretto non solo contro l’ipotesi della ‘dissociazione’ degli appartenenti a Cosa nostra, ma anche e a maggior ragione contro ogni ipotesi di scambio o trattativa tra uomini della mafia e uomini dello Stato” si legge nelle comunicazioni del presidente Pisanu. Che sottolinea: “Possiamo ipotizzare che qualcuno, finora sconosciuto, abbia fatto il nome del valoroso giudice, magari soltanto per imperdonabile leggerezza, facendolo apparire come un ostacolo insormontabile a qualsiasi genere di trattativa, un ostacolo che bisognava rimuovere. Naturalmente – fa notare Pisanu – resta in piedi l’ipotesi che l’accelerazione della strage sia stata decisa autonomamente da Riina per reazione al mancato accoglimento delle sue richieste. Peraltro l’assassinio di Borsellino era stato deliberato e confermato insieme a quello di Falcone e non dovrebbe dunque apparire illogico che i due delitti siano stati eseguiti a breve distanza. Totò Riina ed i suoi accoliti non potevano non temere il lavoro di quel magistrato capace, coraggioso e incorruttibile. Fermarlo era per loro questione di primaria importanza”.