Frankenweenie, Burton torna a casa
“Da bambino, guardando i film di mostri, sono diventato un grandissimo fan dell’opera di Ray Harryhausen […]. Riusciva a instillare nei suoi mostri più emozione che nella maggior parte degli attori di quei film. E anche se non avevano un particolare carattere, gli concedeva sempre una grande scena di morte. Esalavano sempre un ultimo respiro e la loro coda fremeva un’ultima volta, e tu ti sentivi male per loro”. Tim Burton, La sposa cadavere di Tim Burton, Einaudi, 2006, p. 7
Ogni animale ha un’anima in
Nightmare Before Christmas o in
La sposa cadavere, storie teneramente lugubri animate in stop-motion. Terzo lungometraggio ottenuto con la tecnica cara ad Harryhausen,
Frankenweenie –
da giovedì 17 nelle sale – riporta
Burton al nucleo della propria ispirazione, costituendo il remake del suo
omonimo titolo live-action (prodotto sempre dalla Disney nel 1984). Dopo il prototipo Abercrombie, che faceva già rima con zombi nel corto
Vincent (1982), fu la volta del bull terrier Sparky, insostituibile estensione del protagonista, cui seguono la versione fantasma di Zero, in
Nightmare Before Christmas, o quella tutta ossa di Briciolo, in
La sposa cadavere.
In 3D d’ordinanza, ma in bianco e nero, spia della libertà produttiva di cui ha goduto in fase di produzione,
Frankenweenie è un Burton vecchia maniera. Alle figurine di una vulgata gotica di cui è indiscutibile maestro, coordina, infatti, un esperimento-estensione dentro e sopra il suo look, cavandosi dall’impaccio dell’originalità perché alle prese con il rifacimento di se stesso. Questa nuova-vecchia pellicola ha a che fare con la sensibilità infantile, con la chiusura verso il mondo esterno, con le oppressioni familiari, con il rifugio nell’oscurità e con quel rifiuto della morte che porta Victor dalle parti del castello
Frankenstein solo perché vuole giocare ancora con il suo cane.
Niente di nuovo? Non proprio. In realtà
Frakenweenie appartiene più al passato in cui è stato concepito che al presente in cui è stato realizzato, legato com’è a quella poetica dell’outsider che il Burton-pensiero sembra essersi lasciato alle spalle: per rendersene conto è sufficiente pensare alla carroliana Alice del suo film più infelice o al Barnabas del sottovalutato
Dark Shadows, talmente inseriti all’interno della società cui appartengono da volerla dominare.