Aveva iniziato la sua carriera di magistrato a San Donà di Piave come pretore e poi era tornato a Bologna, dove aveva continuato in quel ruolo fino a che le preture non vennero abolite, nel 1998. Norberto Lenzi, che in seguito era divenuto giudice unico del tribunale e consigliere della corte di Appello, è scomparso dopo una lunga malattia. Nato nel 1940 a Porretta Terme e padre del blogger del Fattoquotidiano.it Riccardo Lenzi, con diverse sue sentenze aveva scritto l’ultima parola su alcune vicende che avevano fatto molto parlare di sé sui giornali, come l’accusa di frode fiscale al campione di sci Alberto Tomba e di suo padre Franco.
La vicenda riguarda oltre 20 miliardi delle lire di allora. Secondo gli inquirenti, ne erano stati dichiarati solo 2,5 mentre gli altri si riteneva fossero derivati da contratti non denunciati. Ed era finita, questa storia, con la sentenza d’inizio 2002 in cui in sostanza il giudice Lenzi assolveva lo sciatore per non aver “compreso” il fatto. Nelle motivazioni, infatti, si legge che “l’allenatore e la sorella Alessia [dicono] che Alberto non possedeva nemmeno un libretto di assegni, perché dovunque andasse era ospite o c’era chi pagava per lui. Atteggiamento che viene dipinto non come regale disinteresse, ma proprio come fanciullesca inconsapevolezza; un’alienante robotizzazione dell’atleta nella quale parrebbe mortificante identificarsi, ma che appare accettabile, o addirittura utile, in un dibattimento”. Meno bene invece era andata al padre coimputato.
Un anno prima, per il giudizio del magistrato bolognese era passato un altro vip. Anzi, due. Nel maggio 2001, infatti, si era pronunciato in una causa intentata contro Vittorio Sgarbi e Giorgio Gori, querelati nel 1996 da un magistrato di Lucca, Domenico Manzione. Era accaduto che su Canale 5, all’interno della trasmissione “Sgarbi quotidiani”, il critico d’arte avesse addossato al pubblico ministero toscano la responsabilità del suicidio di una persona che aveva portato in giudizio e che era stata condannata a 8 anni di reclusione.
La vicenda, per Sgarbi, era diventata il paradigma da usare come un attacco indiscriminato contro i giudici “che giustiziano la gente, anche se innocente, al fine di coprire i loro abusi e di arrivare ai loro scopi”. E tornando sul ruolo di Manzione e colleghi, aveva aggiunto davanti alle telecamera di Mediaset: “Non posso offenderli, ma io voglio offenderli; non posso offenderli perché non mi posso permettere di essere querelato da loro, ma io li odio, io li odio, io li odio”. Di fatto, però, nonostante le sue parole e nonostante fosse un parlamentare, Vittorio Sgarbi si era ritrovato con una querela per diffamazione da parte del magistrato citato e la stessa sorte toccava a Giorgio Gori, ai tempi direttore di rete.
Per Norberto Lenzi, chiamato a giudicare gli imputati, “l’intervento dell’onorevole Sgarbi perde di vista il piano generale della sua battaglia e si abbatte sul singolo magistrato in termini così diretti e inequivoci da rendere improponibile sul piano concreto la tesi difensiva”. Quindi “in questo contesto lo spettatore-interprete, quando sente parlare di giudici che vogliono continuare a uccidere, quando sente esprimere fiammeggianti sentimenti di odio, non ha alcuna possibilità di scindere da una proclamata nefandezza collettiva la posizione individuale del dottor Manzione”. Ed era finita con la condanna del parlamentare-conduttore mentre Gori era stato assolto.
Una lunga carriera, quella di Lenzi, che era passata inevitabilmente anche attraverso gli anni della strategia della tensione. In qualità di pretore, non aveva seguito direttamente i processi celebrati davanti alle corti d’Assise, ma a lui erano arrivati casi legati alle stragi di portata comunque non marginale. Come quello che aveva portato nel 1983 alla condanna di Claudia Aiello, un’impiegata del Sid, il nome del servizio segreto prima che la riforma dell’ottobre 1977 lo trasformasse in Sismi.
La donna, deponendo a Bologna, aveva negato di aver mai pronunciato al telefono le parole “le bombe sono pronte”. Peccato che a sentire quella frase, scandita nella ricevitoria del Lotto di via Aureliana, a Roma, ci fosse una donna, la titolare dell’esercizio commerciale. Che qualche giorno dopo aveva saputo dai giornali che un ordigno era esploso sul treno Italicus. Era il 4 agosto 1974 e la proprietaria del locale pubblico, ricordandosi della strana telefonata, aveva segnalato l’episodio alla pubblica sicurezza facendo partire gli accertamenti sull’impiegata dei servizi segreti.
Questi sono solo alcuni degli episodi di una carriera che per Norberto Lenzi si era conclusa con la pensione. A quel punto, smessa la toga, si era trasformato in un osservatore della politica. Era stato uno dei primi a seguire il Movimento 5 Stelle ancora prima che assumesse questo nome. Nel 2005 era stata diffusa la lettera che aveva scritto a Beppe Grillo e l’8 settembre 2007 aveva partecipato al V-Day quando in piazza Maggiore si erano radunate 50 mila persone. Ma Lenzi era un battitore libero e aveva continuato così negli anni, collaborando con diverse testate giornalistiche, per criticare il berlusconismo, le riforme della giustizia dei governi di centrodestra e la reazione, che riteneva scarsa, dell’opposizione.