Perché un conservatore, un “falco”, un leader del Ppe come Jean-Claude Juncker dice cose che in Italia sembrano da sinistra radicale? Semplice: si basa sugli studi più recenti dell’Unione europea, sui numeri. Juncker, presidente dell’Eurogruppo (il coordinamento dei ministri economici dell’Eurozona), indica due punti: l’euro avrebbe dovuto ridurre gli squilibri sociali, e non è successo; la disoccupazione in Europa è drammatica (11,7 per cento, picco del 26,2 in Spagna) e serve un salario minimo europeo.
Nella crisi la gabbia della moneta unica sta in effetti contribuendo ad aumentare la disuguaglianza. Lo ha stabilito un’analisi della Commissione europa del 18 dicembre: se si guardano i deficit e i surplus delle partite correnti – alcuni Paesi esportano più di quanto importano (Germania), altri il contrario (Grecia prima del crollo dei consumi – si scopre che gli squilibri sono dovuti soprattutto a flussi finanziari favoriti dalla convergenza dei tassi di interesse. Tradotto: alcuni Paesi come Grecia e Italia, grazia all’ombrello della moneta unica, hanno potuto indebitarsi pagando meno di quanto avrebbero dovuto. E da lì derivano i problemi da risolvere oggi. Quando il mercato si è svegliato dalla bolla della fiducia (che teneva bassi i tassi rendendo conveniente indebitarsi), i Paesi dell’Unione hanno invece cercato di correggere la bilancia dei pagamenti. E “la maggior parte dell’aggiustamento si è avuto dal lato dei Paesi in deficit attraverso la compressione degli investimenti e dei consumi”. Semplificando: gli squilibri di competitività tra Germania e Grecia (e Italia) si potevano risolvere in due modi: o alzando i salari tedeschi o riducendo quelli italiani e greci. Ha vinto la seconda ipotesi. Quindi Juncker ha ragione, la promessa di fondo dell’euro non è stata rispettata.
Come correggere il tiro? Per esempio intervenendo sul salario minimo. Secondo la teoria il salario minimo alza il prezzo del lavoro meno qualificato, facendone diminuire la domanda (quindi sale la disoccupazione) e rende relativamente più conveniente assumere lavoratori più qualificati. Inoltre sale il prezzo delle merci, si riduce la domanda e dunque la produzione, rendendo necessari meno lavoratori. E, ancora una volta, sale la disoccupazione dei lavoratori poco qualificati che si volevano tutelare. Questa è la teoria. Che in Europa si dimostra falsa, dice lo studio su “Sviluppo e sviluppi sociali in Europa” presentato lunedì dalla Commissione europea. Si scopre che in Europa, dati 2010, c’è una correlazione positiva tra salario minimo e percentuale di reddito da lavoro. Più è alto il salario, maggiore la quota di ricchezza che resta ai lavoratori. Si riduce anche la disuguaglianza nella società (misurata dall’indice di Gini). E, quel che più conta, nel 2010 sin Europa si è registrata una correlazione positiva tra salario minimo e occupazione dei lavoratori poco qualificati. La rigidità salariale ha addirittura aiutato i lavoratori più deboli a trovare un posto (o a non perderlo), al contrario di quanto previsto dalla teoria.
In Europa 20 Paesi hanno un salario minimo, ma non c’è uno standard comunitario che eviterebbe competizioni al ribasso tra i Paesi: in Francia vale il 47,4 del salario medio, in Spagna il 34,6. In Italia non c’è. Vigono in contratti nazionali di categoria che fissano gli standard. Ma con l’apprendistato si permette alle imprese di pagare meno di quanto fissato dal contratto per cinque anni, praticamente a parità di mansioni, visto che il lavoratore deve apprendere. E le parole di Juncker sono state accolte con una certa freddezza.
Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2013