Le pagine locali dei quotidiani nazionali sono implacabili. L’altro giorno una titolava su Daniel Pennac a proposito della laurea honoris causa che gli concederà l’Ateneo bolognese. Inutile dire che ho provato il moto di stizza che sento arrivare tutte le volte in cui si parla dello scrittore francese. Non capite? Ovvio che non capite. Per capire dovreste conoscere fino in fondo la storia dei miei rapporti con Daniel Pennac, storia che – almeno per quanto riguarda un singolo episodio – posso raccontare solo io.

Che anno era? Il 1991, dicono le mie carte. Nel 1991 facevo l’editore, ero impegnato su diversi fronti e di me si diceva un gran bene. Ero attento a quello che mi succedeva intorno, e l’attenzione era una delle poche qualità che si richiedevano a un editore. Avevo un’altra dote, sapevo vedere con un certo anticipo. Il problema è che poi mi muovevo di conseguenza, e la dote diventava un handicap, perché se è vero che nessuno compra prodotto scaduti, è altrettanto vero che nessuno li vuole quando ancora devono imporsi. Anticipavo le tendenze: credetemi se vi dico che non c’è niente di peggio dell’avere ragione qualche anno dopo.

Conoscevo Daniel Pennac, avevo letto i suoi primi romanzi in originale, avrei volentieri pubblicato i libri della saga di Malaussène, ma Feltrinelli mi aveva preceduto. Avevo letto anche due romanzi per ragazzi (L’oeil du loup e Cabot-Caboche, editi da Nathan) mi erano piaciuti e lì, rispetto all’edizione italiana, potevo giocarmela visto che avevo alcune trattative aperte con il suo editore francese.

Avevo incontrato la responsabile dei diritti esteri di Nathan alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna, avevamo parlato dell’edizione italiana della collana “Nuits noires” e, proprio mentre me ne andavo, le avevo detto che ero interessato a tradurre quel loro nuovo autore: Daniel Pennac. Lei si era preso l’appunto, ne avremmo riparlato di lì a poco, a Parigi.

A Parigi raffiniamo ogni possibile dettaglio sulle “Notti nere” (la collana uscirà qualche mese dopo accolta da un silenzio di tomba e dalla diserzione in massa di ogni possibile lettore), ci stringiamo più volte la mano. Sto per andarmene, mi dice: «E Pennac?». «Lo voglio», rispondo cercando di convincermi che lo voglio per davvero, contrariamente a quanto farebbe pensare la mia memoria che continua a relegarlo in seconda fila. Pennac è un grande scrittore, i romanzi di Malaussène sono dei colpi da maestro, e anche nei libri per ragazzi ci sa fare come pochi. Per la mia casa editrice sarà un bel colpo. Bastano una proposta e una ulteriore stretta di mano. Ritorno da Parigi con Pennac in catalogo. Sono fiero di me.

Passa un giorno e ricevo i contratti via fax. Passa un altro giorno e arriva un nuovo fax. C’era il fax allora per le comunicazioni urgenti e, si direbbe oggi, tracciabili. È sempre lei, la responsabile dei diritti esteri di Nathan. Con una calligrafia nervosa mi espone il problema. Ha ricevuto un’offerta per i libri di Pennac da parte di Salani. Un’ottima offerta paragonata alle poche lire che può darle la mia casa editrice. Mi prega di rinunciare per il bene di Pennac (e anche per il suo).

Mi chiudo nella mia stanza. Valuto la situazione. Nathan e Salani sono colossi, io no. Potrei andare avanti, pubblicare Pennac e chi s’è visto s’è visto. Ma durerebbe poco. Il contratto ha una scadenza e comunque ci sono tanti modi per anticiparla. Ho battuto sul tempo un grande editore ma non basta, dovrei batterlo anche sulla forza e lì non ho speranze. Mi pare di avere una sola risposta, accondiscendere alla richiesta e rinunciare. E Pennac? Gli farò un favore senza che mai lui lo venga a sapere. Bell’affare. Rispondo al fax battendo il testo al computer. Alla tipa la soddisfazione della mia calligrafia non gliela voglio dare. Firmo. Infilo il foglio nell’apparecchio, cerco di immaginare la sua faccia mentre legge la mia resa. Fosse almeno simpatica. Come pensavo, non ha neppure la delicatezza di ringraziarmi subito. Impiegherà tre giorni per farlo.

Che mi era preso? Bella domanda. Forse pensavo che una nuova editoria fosse possibile, forse addirittura che l’erba del vicino fosse più verde. Ma si può? No, non si può. In una situazione simile quattro anni dopo risponderò picche. E mi si apriranno le porte del fallimento. Giusto per dire che non esiste una ricetta. O meglio, esiste e prevede che i grandi abbiano sempre ragione.

Adesso chi lo dice agli accademici di Bologna che Pennac era mio. Che quei due libri, pubblicati da Salani con i titoli di L’occhio del lupo e Abbaiare stanca si sono stampati e venduti in decine di edizioni. E che se li avessi tenuti, com’era mio diritto, forse a Bologna esisterebbe ancora la casa editrice che lo aveva lanciato come narratore per ragazzi. Perché a lui tutti gli onori? Non è che rimane qualcosa anche per me? Andrebbe bene pure una laurea di seconda mano, financo in dabbenaggine, se ci fosse un corso di studi che la prevedesse.

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