Qui non si parla di politica o di alta strategia. Qui si lavora”. Credo che in pochi riconosceranno l’origine di questa frase, che era un pericoloso cartello di avvertimento in ogni luogo pubblico durante la guerra fascista.
Nel momento in cui scrivo è una perfetta descrizione del Parlamento che è stato appena sciolto. Ma anche del lavorio infaticabile e intenso, degli scontri e incontri e incroci e ripulse e improvvisi ritorni di legami perduti che la preparazione del nuovo Parlamento attraverso la composizione delle liste elettorali. Quelle che sono già disponibili sono lì a dimostrare ciò che sto dicendo: liste di dirigenti, di quadri e di impiegati per future imprese parlamentari che devono produrre con disciplina certi prodotti. Le liste che non ci sono ancora dimostrano quanto sia difficile mettere insieme persone efficienti, sottomesse, laboriose, fingendo di accumulare talenti.
Ogni lista ha i suoi ornamenti o i suoi pezzi di antiquariato, un po’ come esporre nell’atrio della ditta il primo macchinario con cui era cominciata l’impresa. Per il resto, personale di fiducia, che non alzi la testa. Qui mi scontro – lo so – con la diffusa persuasione che “il Parlamento non lavora”. Il Parlamento, salvo quando subisce gravi incidenti di percorso, come è accaduto nella lunga agonia dell’ultimo governo Berlusconi, lavora moltissimo, ma non per fare politica. Quando si dice ‘di questo discuterà il Parlamento’, non si dice niente. Il Parlamento produce con alacrità atti amministrativi fatti di labirintici commi ed emendamenti, il cui senso e le cui conseguenze sono chiari solo ai committenti e ai destina-tari.
Molto dipende, naturalmente, dal rapporto fra Parlamento e governo. Il Parlamento, quando è guidato da Monti, lavora intensamente ad approvare in fretta, quasi senza discutere, ciò che è stato deciso in materia economica, per ragioni di emergenza (vera emergenza provocata dall’incompetenza e tendenza a mentire di Berlusconi). L’ultimo governo “generalista” del Paese (nel senso che voleva, allo stesso tempo, produrre alcuni risultati tecnici e alcuni fatti politici) è stato il governo Prodi. Poi è diventata abituale la totale assenza del dibattito politico, salvo stentorei discorsi di parti e controparti ogni due o tre mesi, su questioni gravi, come i diritti umani, la scuola, il lavoro, la pace, questioni che non hanno mai avuto in Parlamento né un prima né un dopo. Dunque sono privi di fondamento quei “rating” che assegnano ai vari parlamentari gradi di “produttività”. Lo sono perché non si domandano “produttività” di che cosa?
Sto descrivendo, temo in modo accurato, un Parlamento che sta alla larga dalla politica e in cui un parlamentare non può prendere alcuna iniziativa politica da solo tranne che parlare a un’aula vuota, una volta esaurito l’ordine del giorno alla cui compilazione non partecipa. Allora dov’è la politica? Come abbiamo visto il percorso verso il governo non serve. Se un governo ha interesse a non fare politica (per esempio per non compromettere una coalizione, si pensi alle “coppie di fatto”) il Parlamento rimane afasico. Infatti c’è il regolamento, stravagante, rigoroso e invalicabile delle Camere. Stabilisce che un parlamentare, persino nella o nelle Commissioni di cui fa parte, può presentare un’interrogazione solo tramite il rappresentante del suo gruppo. Stabilisce che il deputato o senatore possono proporre tutto quello che vogliono. Non arriverà mai in aula (e il parlamentare proponente non potrà parlarne in aula) fino a quando il suo gruppo, cioè il partito con cui è stato eletto, non darà il permesso . Il più delle volte non accade mai. Dunque se cercate dove comincia e dove finisce la politica (e dove si esercita o si azzera la “produttività” politica) la freccia punta ai partiti. Ed è qui che un segugio indagherebbe per rispondere alla domanda: che fine ha fatto la politica? L’indagine può cominciare benissimo dalle nuove liste elettorali che si sono composte o si stanno componendo, e ai partiti (ai loro leader) che le hanno volute. Ognuno ha cercato uno o due personaggi di valore estranei all’organizzazione, ma destinati a ornare il salotto, a depositare un discorso o una memorabile intervista e a togliere il disturbo. Ma ha voluto soprattutto numerose e ben distribuite pattuglie di lavoratori che al momento giusto restano in attesa dell l’input, qualunque esso sia (andare avanti, tornare indietro, accordarsi o scontrarsi per ragioni che non sempre vengono condivise) o anche solo spiegate).
Come esempio pensate alla scelta Pd del dottor Galli, già direttore generale di Confindustria, dato come probabile ministro del Lavoro a nome del partito che ospita il candidato ed ex ministro del Lavoro Damiano. A Damiano non si è potuto dire di no e far finta che non esista, come è accaduto al deputato Sarubbi (che si era ostinato a parlare di politica, di diritti umani, e non di Eni, al tempo del trattato con la Libia) e in due, oltre ai Radicali, avevamo votato no. Ma la sua presenza è saggiamente compensata e “coperta” dal dottor Galli per non correre il rischio di “ali estreme”. Come esempio prendete Paola Binetti e osservate dove l’ha collocata il nuovo mondo di Monti: due volte capolista in punti essenziali delle nuove liste per rassicurare chi deve essere rassicurato sui valori non negoziabili. Sono solo due lampi nel buio, ma servono per dire che la politica ha un suo unico luogo, i partiti.
Ma i partiti, anche quelli rispettabili, hanno deciso di tenersi le mani libere “per negoziare”. Negoziano risultati che hanno a che fare con il potere, non con i cittadini. I cittadini restano soli e, di tanto in tanto, sono accalappiati nella rete di decisioni che non si sa se siano buone o cattive perché sono indecifrabili. Si sa che sono pesanti, che cambiano la vita di molti. Sarebbe importante discutere di tutto ciò in politica. Ma quale politica?
Il Fatto Quotidiano, 13 Gennaio 2013