I Tar (tribunali amministrativi) stanno demolendo quel poco di meritocrazia e di concorrenza tra le università che c’è in Italia.

I Tar, in varie zone d’Italia, infatti stanno accogliendo i ricorsi di studenti che non hanno superato gli esami di ammissione a corsi universitari a numero chiuso e stanno imponendo ai vari atenei di accogliere l’iscrizione di questi studenti “non meritevoli”.  
Secondo i giudici amministrativi bisogna assicurare la parità di trattamento tra i cittadini italiani: una ragazza oggi potrebbe risultare estromessa all’Università X con un punteggio che sarebbe sufficiente per essere ammesso in un’altra università. E’ su questo punto che si è pronunciato il Tar del Lazio il 21 dicembre 2012. I giudici amministrativi di Roma hanno riammesso alcuni studenti di Milano, Parma, Firenze e Messina esclusi per il punteggio troppo basso, ma che con lo stesso punteggio sarebbero stati ammessi a La Sapienza di Roma. Risultato: tutti ammessi in attesa che il Tar si pronunci in via definitiva.

Il numero chiuso è un modo per selezionare gli studenti più motivati. L’istruzione universitaria non è un diritto, a differenza della scuola dell’obbligo, ma è una formazione di eccellenza che va assicurata solo a chi lo merita. L’istruzione universitaria in Italia è quasi interamente a carico dei contribuenti e questo significa che gli operai i cui figli (purtroppo) difficilmente si iscrivono all’università (come ci confermano i dati Istat sugli iscritti) con le loro imposte pagano i costi dell’istruzione universitaria ai figli dei notai, dei medici, dei politici, ecc. Il nostro sistema universitario è regressivo: toglie soldi ai poveri per assicurare un’istruzione universitaria quasi gratis ai figli dei ricchi. Le tasse universitarie nelle buone università statunitensi sono pari a 30.000 dollari all’anno, ma possono arrivare a 50.000 dollari all’anno. In quelle università si accede solo se si è meritevoli e molto bravi (per essere ammessi si deve avere ottimi risultati in vari test; ottime lettere di motivazione, lettere di presentazione e curricula) ma ci sono anche borse di studio (pagate con quei 30-50.000 dollari annui dai ricchi) per i meritevoli meno abbienti.

La demagogia italiana è quella di chi dice: no al numero chiuso, iscrizioni libere per tutti. Questi si oppongono però anche all’aumento delle tasse universitarie. Siamo al solito: “il paese di Bengodi”; si vuole istruzione universitaria senza selezione, a costo quasi pari a zero, e di qualità. Aule con 1.200 studenti, lezioni tenute nei cinema e nei teatri per l’elevatissimo numero di studenti. Aule affollate da moltissimi studenti che sono lì solo per scaldare la sedia fanno si che la qualità dell’istruzione sia bassa per chi invece è all’università per studiare davvero. Un simile sistema, fa sì che non sia l’università a fare selezione sul merito ma che la selezione sia fatta poi dopo la laurea e in modo non meritocratico. Se i laureati hanno avuto tutti una formazione mediocre, saranno poi le raccomandazioni, i contatti personali, le spintarelle a far sì che i più “inseriti” trovino lavoro e gli altri siano costretti a fuggire all’estero.

Come diceva Don Milani, il sei politico colpisce i poveri, la meritocrazia è sempre a favore di chi non appartiene alle élite.

Ci vuole la parità di trattamento? Chiunque lavori nel settore privato sa bene che le imprese da anni conoscono bene la diversa qualità di un titolo conseguito in un certo ateneo piuttosto che in un altro. Le lauree, nella stessa disciplina, non sono tutte uguali, i laureati sono valutati anche sulla base della sede universitaria frequentata. Un 98 in un certo ateneo è spesso considerato pari a un 110 conseguito in un’altra sede.

Un tentativo fatto dal ministro Profumo è stato quello di creare una graduatoria unica valida per vari atenei e test di ammissione uguali (soprattutto per la facoltà di medicina).

Ma non si può pensare di imporre per decreto o per ordine del tribunale la stessa qualità dell’istruzione universitaria tra le varie sedi. In tutti i paesi del mondo ci sono atenei di elevata qualità, atenei di seconda fascia e atenei di bassa qualità.

La questione cruciale è quella di dare più potere agli studenti sotto forma di “potere di scelta”. Se le università dovessero finanziarsi in parte rilevante con i soldi delle tasse pagate dagli iscritti, le tasse universitarie crescerebbero e gli studenti sarebbero molto più attenti alla qualità dell’istruzione in ciascun ateneo. Si creerebbe una vera concorrenza tra le sedi universitarie per avere sufficienti iscritti (come avviene negli Stati Uniti o nel Regno Unito). Per attirare studenti le università dovrebbero garantire didattica di qualità, docenti di qualità, placement adeguato post-laurea. Le università di bassa qualità dovrebbero fare sconti nelle tasse universitarie per indurre almeno qualche iscritto, ma così facendo avrebbero meno risorse e finirebbero per diventare sempre più università di serie C o peggio chiudere. Una simile riforma è proposta da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese in un volume recente “Facoltà di scelta”, Rizzoli.

Per rendere virtuosa una riforma di questo tipo bisognerebbe, anche, abolire il valore legale del titolo di studio. A quel punto un 110 e lode conseguito all’Università di Roccacannuccia non avrebbe alcun valore.

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