Simboli per raccontare un paese. È la storia degli oltre 200 contrassegni elettorali presentati al Viminale in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio prossimi. A raccogliere con cura e attenzione i simboli che hanno fatto e stanno facendo la storia della politica italiana è Gabriele Maestri, giornalista e dottorando in Teoria dello Stato all’Università di Roma, originario di Guastalla in provincia di Reggio Emilia, che a giugno scorso ha pubblicato il libro I simboli della discordia. Sono 215 quelli presentati per questo turno, 219 se si contavano anche le varianti. Un boom senza precedenti che però riesce ad essere inferiore al record del ‘94 quando si presentarono in oltre 300.
E se l’analisi è strettamente giuridica, la versione pop del libro parla dei simboli più particolari e divertenti, segno di una politica a tratti creativa. E nella lista delle proposte per il 2013 ne comparivano di tutti i colori: Cicciolina, il Movimento Bunga Bunga, lo scudo crociato in varie versioni oppure il senza tetto con un fagotto e che lamenta “come ci hanno ridotto”. Poi le varie versioni di Monti. “È da quando sono piccolo, – racconta Gabriele Maestri, – che mi interesso alla questione e questa passione per i simboli mi è rimasta addosso. Poi una volta all’università, ho scoperto che c’era poco materiale. E così ho fatto di questa passione un argomento di scrittura”.
Da lì la decisione di raccogliere in un libro tutti gli esperimenti grafici dell’Italia politica degli ultimi anni, scoprendo così un paese votato allo scontro e ai bisticci dietro ogni segno grafico. E sfogliando le carte, tante sono le sorprese: il simbolo Fascismo e Libertà, il partito dell’amore, Forza Roma, il Sacro Romano Impero. “Quello che ho trovato è una politica litigiosa e creativa al tempo stesso, che cerca di restare vincolata al passato, spartendosene i brandelli. Di grandi novità nel tempo se ne sono viste poche”.
Così la lite è sempre intorno ai dettagli, come per lo scudo crociato, il simbolo che più rimanda alla tradizione democristiana e che anche quest’anno è stato presentato per quattro volte. Oppure il simbolo civetta con le 5 stelle. “Attenzione però, – continua Maestri, – non credo che si tratti di complotti quando vediamo simboli simili come nel caso del Movimento Cinque Stelle o Rivoluzione Civile di Ingroia. Il nostro sistema giuridico per le elezioni politiche ed europee, consente a chiunque di presentare contrassegni. E il farlo è un modo per dire di esistere a se stessi e agli altri. Se però non si rispettano le regole il contrassegno viene bocciato”.
La querelle sta tutta nel simbolo presentato al Viminale: la legge parla di contrassegno, ovvero un marchio di riconoscimento. Le regole? Soltanto quattro: non cambiarlo sotto le elezioni, non farlo confondibile, non prendere quello di un gruppo che è già in parlamento ed evitare i simboli religiosi. Il resto è spazio all’anarchia in un botta e risposta tra politici e Viminale che non risparmia sorprese. Tra le varie tecniche grafiche per attirare l’attenzione degli elettori, l’idea di inserire un nome, non necessariamente del candidato premier.
È il caso di Silvio Berlusconi per il Pdl oppure la dicitura per il Movimento Cinque Stelle. E se alcuni ne sottolineano l’intento fuorviante, altri ne rivendicano la legittimità. “Il ministero dell’interno dice che è possibile, – specifica Maestri, – non c’è niente di illegale. Il primo a mettere il proprio nome nel simbolo elettorale è stato Pannella nel 1992 con la famosa Lista Pannella. Sarebbe stato però solo l’inizio di un’abitudine diffusa e del tutto accettata”.
Uno studio accurato quello di Maestri, che dopo il libro ha deciso di aprire un blog http://isimbolidelladiscordia.blogspot.it e dove con precisione racconta alcuni degli episodi più interessanti legati ai simboli della politica italiana. E nella rassegna ci sono anche vinti e vincitori. “Se devo scegliere uno dei più efficaci del panorama elettorale degli ultimi anni, devo dire che chi ha studiato il contrassegno di Forza Italia ha avuto una buona intuizione”.
Una bandiera tricolore e uno slogan, la scelta che ai tempi diede grandi risultati. “In quel simbolo si riprendeva il tricolore in un momento storico in cui quei colori non erano ancora stati troppo utilizzati dai partiti e inoltre si usava uno slogan prima sentito solo allo stadio e che ora molti non di “destra” si vergognano a pronunciare. Segno che è stato connotato fortemente con il sapore politico di quel partito”.
E se alcuni sono simboli vincitori, così difficili da cambiare, altri durano lo spazio di pochi giorni. “È il caso di Scilipoti o dei MIR di Samorì, poche ore di presentazione per poi vederli cambiare nuovamente”. Per chi volesse saperne di più sul blog Gabriele Maestri offre un’analisi dettagliata della questione, cercando di rifare la storia italiana a partire da quello che è il più concreto gesto per pretendere di esistere: il simbolo elettorale.