Per il tribunale del Riesame di Taranto, la legge “salva Ilva” è in “contrasto con gli articoli 3, 24, 102, 104 e 112 della Costituzione nella parte in autorizza ‘in ogni caso’ la società Ilva spa di Taranto” alla commercializzazione dei prodotti finiti e semilavorati sequestrati il 26 novembre dello scorso anno. Il collegio dei magistrati, quindi, ha ritenuto che l’articolo 3 della legge 231 “merita un preventivo vaglio da parte della Corte costituzionale essendo non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate” dalla procura ionica o comunque “rilevabili d’ufficio”. I giudici quindi non sono entrati nel merito della legittimità costituzionale della legge riguardo alla prosecuzione della produzione a scapito di ambiente e salute perché la vicenda riguarda esclusivamente la vendita di beni sotto sequestro.
Sul punto i magistrati hanno spiegato inizialmente che “la vendita della cosa in sequestro, cui segua la consegna all’acquirente, integra un reato” dato che in caso di vendita “alcun diritto potrà essere esercitato dallo Stato sul bene sequestrato e commercializzato”. Nel caso in esame, i magistrati hanno motivato la decisione spiegando che l’articolo 3 della legge voluta dal ministro dell’ambiente Corrado Clini “presenta evidenti profili di contrasto innanzitutto con articolo 3 della Costituzione, ossia il principio di uguaglianza, dal momento che identici fatti-reato, se commessi alcune imprese, possono determinare il sequestro del prodotto del reato medesimo e la conseguente incommerciabilità di beni, se commessi, invece, da Ilva spa non comportano analogo effetto, determinandosi in questo modo, ad avviso dell’odierno collegio, una inammissibile disparità di trattamento. La legge si presenta pertanto come legge del caso singolo”.
Nelle venticinque pagine di ordinanza con la quale sospendono il giudizio sull’eventuale conferma o revoca del sequestro dei prodotti in attesa del pronunciamento della Consulta, i magistrati descrivono come “la previsione di un trattamento penale più favorevole per i presunti responsabili di illeciti che contribuiscono a creare o a mantenere una situazione di emergenza ambientale (incidendo gravemente su beni di rilevanza costituzionale, quali l’ambiente, la salute dei cittadini, esposti a grave pericolo proprio per effetto di quei comportamenti) appare manifestamente irragionevole e si pone, altresì, in contrasto con il criterio di scelta comunemente adottato dal legislatore”. Non solo. Il riesame di Taranto, composto da Alessandro de Tomasi, Massimo De Michele e Benedetto Ruberto, descrive la legge “salva Ilva” come una norma “solo formalmente generale e astratta, ma il cui fine precipuo e immediatamente evidente – per la tempistica le modalità di approvazione del provvedimento – è stato quello di regolamentare un caso singolo”.
Ma la legge ad aziendam non viola solo l’uguaglianza dei cittadini. “La previsione – aggiungono i giudici – in favore di Ilva spa, della possibilità di commercializzare il prodotto sotto sequestro, contenuta nel citato articolo 3 della legge 231/2012, presenta profili di illegittimità costituzionale non manifestamente infondati anche riferimento agli articoli 102 e 104 della Costituzione che tutelano le prerogative della funzione giudiziaria” perché “di fatto la legge incide sulle attività giurisdizionali in corso, ed in particolare sulla possibilità, all’esito del procedimento, di disporre la confisca del prodotto di un reato”. Se la legge, cioè, fosse applicata e al termine dell’eventuale processo i responsabili fossero ritenuti colpevoli in via definitiva, l’autorità giudiziaria non potrebbe disporre la confisca dei corpi di reato come avviene in altri procedimenti analoghi. Il provvedimento adottato dal Governo e poi convertito dal Parlamento è “una invasione nella sfera di competenza di competenza del potere giudiziario e si manifesta come uso abnorme della funzione normativa”. Per i giudici in sostanza “attraverso lo strumento legislativo è stato direttamente modificato un provvedimento” del gip Patrizia Todisco, divenuto irrevocabile, senza “modificare il quadro normativo sulla base del quale era stato emanato il decreto del giudice”. Un atto quindi compiuto nonostante il principio di separazione dei poteri poiché questa legge “ammazza Taranto”, così è stata ribattezzata da cittadini e ambientalisti, “non ha altra funzione, allora, che quella di sostituire la decisione parlamentare la valutazione dell’autorità giudiziaria circa disponibilità dei beni da parte dell’impresa”.