Nel laboratorio dell'attore bolognese in questi giorni con una collettiva a Berlino e con una installazione a Set Up, la collaterale indipendente di Arte Fiera 2013: "I cittadini possono fare questo mestiere, il medico quando finisce di operare deve diventare malato, artista, operaio… Noi ci accontentiamo di un mestiere solo"
Uno come Alessandro Bergonzoni non si intervista, lo si ascolta. Una vita come la sua, in perenne corpo a corpo con la parola, non può essere raccontata/interrotta da domande, semplicemente puoi star lì un’oretta a spiare il suo viaggio, affacciarsi dal suo stesso finestrino. A testa fuori, ci sembrerà che sia lui a trovare le domande, quelle così giuste da sembrare risposte. La metafora del viaggio, del resto, la sposa in pieno Bergonzoni stesso, accogliendoci nel suo atelier/laboratorio “Venite – ci dice – ecco qua, come vedete il mio studio è una dogana, per partenze e arrivi…”.
Noi gli abbiamo chiesto come mai nei suoi ultimi lavori, una mostra collettiva a Berlino (“Data on imperfection”) e la ripresa del tour in teatro (“Urge”) stia toccando i temi dell’imperfezione e dell’urgenza.
“L’imperfezione è quella del corpo, della malattia, del vivere e dell’errore stesso che noi portiamo all’orrore. L’errore è la necessità della paura, dello sbaglio, del panico e della pavidità. Si dice che senza dolore non c’è conoscenza, ma l’arte può fare da ponte fra il dolore e chi non lo ha provato. L’arte lavora soprattutto sul dolore e così come la malattia lavora sulla grandezza, lavorare sull’errore significa lavorare sulla grandezza”.
Dove “incomincia” questa grandezza? Da Dove nasce?
“La grandezza nasce dallo sperimentare, chi non è carcerato non conosce il tema delle carceri, chi non è malato non sa nulla della malattia. Ormai sembra che solo se sei un giovane o un politico puoi parlare di futuro, società e politica, ma invece tutte le cose sono unite, la morte è un gesto politico, la malattia è un gesto sociale”.
E riguardo il tema dell’urgenza?
“Noi fraintendiamo l’urgenza. Con urgenza intendiamo il risolvere problemi pratici contingenti. Non lo possiamo fare. Noi con urgenza vogliamo risolvere l’urgenza, ma al momento non è possibile, possiamo solo predisporci al cambiamento perché ora siamo dentro il male assoluto. La gente mi dice la fine del mondo non è accaduta. Non è accaduta? La fine non è del mondo ma del modo. Non è più possibile far teatro in modo soltanto, scrivere in modo soltanto, rapportarci alla malattia in un modo soltanto, essere civili in un modo soltanto. Dobbiamo seguire la Costituzione mi dico. Ok, ma costituiamoci noi, serve un una sana e robusta pre/costituzione interiore”.
Parli di responsabilità?
“Molti mi dicono “io i politici li vorrei vedere morti”; io li vorrei vedere vivi. Il problema non è la fedina penale, qui è la cartella clinica, quella delle patologie, la cleptomania, la schizofrenia, i disturbi ossessivi compulsivi”.
Cosa serve allora?
“Servono nuove intenzioni, l’arte può svolgere un compito chiave che non è quello di intrattenere bensì quello di cambiare linguaggio, fare una mutazione. Ma ancora siamo alla parodia del politico mentre c’è il politico, così ride il politico e ride chi fa la parodia. Proseguiamo uno spettacolo ma lo spettacolo è finito, l’essere umano è già di distrutto, guarda come vive…”
Un linguaggio diverso ci salverà?
“Certo. Ero rapito ieri sera sentendo parlare Olmi di anima di resurrezione davanti ad un Fazio stupito che poi avrebbe dovuto tornare alla Littizzetto e quindi tornare ad un altro registro di linguaggio, non meglio o peggio, ma comunque diverso”.
A volte è la paura che “ostruisce” il nuovo linguaggio…
“Guai aver paura, perché il disegno davanti al quale noi ci inchiniamo davanti a una mostra è lo stesso che vedi in un ospedale, alla Casa dei Risvegli, che vedi per strada quando copri gli occhi al bambino per non fargli vedere un uomo deformato. L’arte deve congiungerci a ciò che non vogliamo vedere”.
Il ponte di cui parlavi prima?
“Esatto, un ponte, un modo di arrivare un po’ oltre, ma questo richiede un uomo nuovo che deve avere una potenza interiore nostra e smettere di citare…”
Citare?
“Io li chiamo gli uomini di Tarzan, sono tutti impegnati in “citazioni” (citiamo anche Jobs, uno che ha parlato di anima solo alla fine della sua vita ) ma invece di citare dovremmo essere quelli che inventano, che scrivono il nuovo pensiero. Anche come spettatori dobbiamo smettere di citare, non puoi più andare a una mostra e tornare a casa ed essere lo stesso, dobbiamo fare una scuola per spettatori”.
Ma se siamo nell’epoca in cui invece di dire “sì” facciamo clik sui “like”, come facciamo ad “uscire” e diventare attori e non spettatori?
“Non puoi limitarti a cliccare sul computer per dire che sei contro la violenza sulle donne, devi lavorare sulla mentalità di tuo figlio affinché questa violenza sparisca, un lavoro politico, civile e spirituale, ma come fai a parlare di spirituale se la Chiesa stessa sembra esser soprattutto denaro e organizzazione?”
Serve quello che tu chiami un “voto di vastità”…
“Certo, ma non mi riferisco ad una mera adesione ai valori, per carità i valori li lascio alle schermitrici e alle nuotatrici che si schierano di qua e di la, perché credono nei valori della vittoria. Per carità, io sono per la pornografia ma quella vera, quella che invece passa per sociale o educativa lo trovo un po’ oltraggioso. Ma quella vastità vera come fai a raccontarla a chi crede che il corpo di una donna sia solo uno, che la dignità dipenda se sei capace di far l’amore, di lavorare o di aver dei figli, e se uno queste cose non le fa?”
La soluzione?
“Non stare nell’arte come in una galleria chiusa in un antro privato. Siamo tutti la stessa persona. I cittadini possono fare questo mestiere, il medico quando finisce di operare deve diventare malato, artista, operaio…. Noi ci accontentiamo di un mestiere solo”.
Qual è lo “stato dell’arte” a Bologna?
“L’Arte a Bologna, lo dico da nuovo arrivato nel settore, mi sembra funzionare. Io sono grato all’arte perché mi rende studente e non studioso, mi consente di imparare, ma credo che a Bologna possa pullulare ancora di più. Questa città può sviluppare e trattenere anche oltre ciò che adesso ha, a partire da un’altra fiera. Penso a “Set Up” la nuova fiera d’arte contemporanea indipendente di Bologna, la cui prima edizione si svolgerà in città dal 25 al 27 gennaio 2013, con orario serale, all’interno dell’ Autostazione di Bologna (dove lo stesso Bergonzoni, per l’occasione, realizzerà un’istallazione, n.d.r.). Penso che l’interazione tra un’energia nuova come Set Up ed Artefiera (già egregia e potente) costituirebbe un rapporto virtuoso e di arricchimento reciproco. Un “anche”. Bologna dovrebbe operarsi all’anche”.
Qual è la parola che Bologna non riesce a dire?
“Oltre”. Non dobbiamo preoccuparci delle nostre radici, ma dei i rami. Non dobbiamo far il riassunto delle cose belle fatte in un anno, dei funerali e delle proprie medaglie, dobbiamo smetterla di preoccuparci della città ed esserlo per il cosmo; una strage di bambini americani è un problema di Bologna. Ti faccio un altro esempio. Il terremoto di Bologna. Tutti dicono “la nostra terra trema” ma è la tessa terra che trema in Argentina, in Giappone, qua è un problema di “altro” e “oltre”. Quando cade un aereo diciamo “Non c’erano italiani”. Ma che cosa vuol dire? Dobbiamo andare nel “dopo”.
Insomma “Tutto torna come dopo”, come dici nel titolo della mostra che hai fatto a Milano?
“Dobbiamo capire che siamo già nati nel dopo, e invece dopo la malattia, dopo l’amore, siamo ossessionati di tornare come prima. Sbagliamo. Tu mi dici che la fine del mondo non è avvenuta? Io ti dico che è morto da una vita e stiamo iniziando a ricostruirlo”.
Foto di Roberto Serra – Video di David Marceddu