Lo studio di Transcrime dell'Università Cattolica di Milano sui quasi 20mila beni confiscati alla criminalità organizzata in quasi trent'anni stima nell'1,7% del Pil l'economia criminale. Nell'attività economica, i boss badano meno al profitto e più al "consenso sociale". La criminalità calabrese fa solo il 23% dei profitti nella regione d'origine. Il professor Savona: "Ma il crimine paga meno di quanto si pensi"
I mafiosi come imprenditori? Bocciati. Perché nelle loro attività badano più al controllo del territorio e al consenso sociale che alla reale redditività dei business in cui investono. E’ questo uno dei risultati dello studio “Gli investimenti delle mafie”, realizzato dal centro interuniversitario Transcrime dell’università Cattolica, presentato nell’aula magna dell’ateneo milanese. Una ricerca che dà diverse conferme, come l’esistenza di forti interessi economici della ‘ndrangheta nel nord-ovest del Paese. Ma sfata la convinzione che il giro di affari attorno alle organizzazioni criminali si avvicini addirittura al 10 per cento del Pil.
“Il crimine paga molto meno di quello che si dice”, assicura il direttore di Transcrime Ernesto Savona, visto che i ricavi annui legati ad attività illecite sono stimabili con una forbice che va dai 17,7 ai 33,7 miliardi di euro (il valore medio di 25,7 miliardi corrisponde all’1,7 per cento del Pil). Attraverso un’analisi scientifica di dati provenienti da fonti aperte come il database dei beni confiscati, la ricerca ha portato a mappare il territorio nazionale in base a diversi parametri, come l’indice di presenza mafiosa (Ipm), che dà una fotografia di dove le organizzazioni mafiose operano in prevalenza.
Ai 25 miliardi di euro stimati come ricavi complessivi del crimine contribuiscono soprattutto il traffico di droga (7,7 miliardi), le estorsioni (4,76 miliardi), lo sfruttamento sessuale (4,6 miliardi), la contraffazione (4,5 miliardi) e l’usura (2,2 miliardi). Le mafie non hanno il monopolio di questi business, ma se ne aggiudicano solo una fetta che va dagli 8,3 miliardi ai 13 miliardi, puntando soprattutto su estorsione (45 per cento), droghe (23 per cento), usura (10 per cento) e sfruttamento sessuale (8 per cento). Le due organizzazioni criminali più aggressive negli affari sono la camorra e la ‘ndrangheta, che si aggiudicano rispettivamente il 35 e il 33 per cento dei ricavi. Più di Cosa nostra (18 per cento) e della criminalità organizzata pugliese (11 per cento).
A differenza delle altre mafie, che ricavano una parte consistente delle proprie entrate illecite nelle regioni di origine, la ‘ndrangheta si distingue come quella che più ha colonizzato il resto d’Italia. Solo il 23 per cento dei suoi ricavi proviene infatti dalla Calabria, mentre a farla da padrone sono i clan attivi nel nord-ovest: il Piemonte pesa infatti per il 21 per cento dei ricavi, la Lombardia per il 16 per cento, seguite da Emilia Romagna (8 per cento), Lazio (8 per cento) e Liguria (6 per cento). Un dato che conferma i risultati delle ultime inchieste della magistratura, che hanno mostrato come la ‘ndrangheta abbia messo le mani sull’economia delle zone più sviluppate del Paese.
Una volta stimato il giro di affari delle mafie, lo studio si è posto il problema di come vengano investiti i guadagni illeciti. Per questo sono stati considerati i quasi 20mila beni confiscati alle organizzazioni dal 1983 al 2011. Di questi il 52,3 per cento sono beni immobili, seguiti da beni mobili (39 per cento), come autoveicoli, denaro e gioielli. I dati sui beni immobili, secondo i ricercatori di Transcrime, dimostrano che gran parte di appartamenti e terreni vengono acquistati non a fine speculativo, ma per aumentare il consenso sociale. Insomma, un boss per acquisire prestigio e rispetto punta spesso sulla villa di lusso.
Una logica analoga è sottesa anche agli investimenti in aziende e titoli societari (8,7 per cento del patrimonio delle organizzazioni criminali): le esigenze di riciclaggio e di creazione di un consenso sociale che favorisca il controllo del territorio prevalgono sugli obbiettivi di profittabilità. “Il boss, più che degli indici di redditività, si preoccupa di apparire come un punto di riferimento capace di soddisfare le esigenze di chi vive nella stessa area, come la ricerca di un posto di lavoro”, commenta il sottosegretario di Stato all’Interno, Carlo De Stefano, che ha partecipato alla presentazione dello studio insieme al vice capo della polizia ed ex questore di Milano Alessandro Marangoni.
Gran parte delle società riconducibili alle mafie hanno così diversi tratti comuni: bassa profittabilità, basso indebitamento con le banche e alta liquidità. Come forma societaria viene scelta nel 46,6 per cento dei casi la srl, il più delle volte messa in mano a un prestanome scelto nella cerchia famigliare, in modo da limitare al massimo la presenza di manager e consulenti esterni. Le aziende controllate dai boss puntano soprattutto su costruzioni, commercio, estrazioni e cave, alberghi e ristoranti. Ovvero i settori a più basso livello tecnologico, maggiore intensità di manodopera e più alto coinvolgimento della pubblica amministrazione.
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