“Alì ha gli occhi azzurri” è uno dei rarissimi film italiani capace di entrare nella realtà e restituirci uno spaccato di società contemporanea. Personalmente, appassionato della straordinaria produzione cinematografica di qualche decennio fa, sono uno spettatore molto esigente con il cinema di casa nostra; di questi anni aridi e avvizziti salverei soltanto “Gomorra” e pochissimi altri film. In modo efficace, senza artifici e senza eccessi, senza moralismi e senza indulgenze, il regista ci racconta il concreto modo di vivere di alcuni ragazzi immigrati nelle periferie romane: valori travisati, violenze, l’incontenibile fisicità della gioventù, piccoli e grandi reati, amori e amicizie, la discoteca mattutina al posto della scuola, le risse, le vendette.
Ne ho conosciuti di ragazzi con simili trascorsi nella mia attività di insegnante a Rebibbia. Nel nostro ambito si usa “poco scolarizzati”, per dire che vengono dalla strada. Ciò non toglie, naturalmente, che alcuni abbiano notevoli capacità intellettive, vivaci e pronti di spirito come sono. Mi capita spesso di domandarmi dove sia la colpa della nostra distratta società che non riesce a mettere a frutto simili potenzialità.
L’altro giorno ad alcuni di questi ragazzi è stato assegnato un compito di matematica applicata. Hanno spostato i banchi e creato una sorta di ambiente di lavoro “open space”, con tutti i fogli e le calcolatrici in mezzo. La sagacia delle loro battute e gli sfottò, per una volta, sono rivolti a chi sbaglia la frazione o il segno. Quello dell’ultimo banco alza la testa, mostrando i capelli dritti per la tensione: “Presso’, a me ‘sto zzero virgola tre ma sta a manna’ ai matti”. E io penso a quanto dovevano essere diversi gli affanni che provava nella precedente vita di strada che l’ha fatto finire qui.
È molto gratificante vederli così indaffarati a collaborare per un “risultato” così lontano dal loro vissuto. Quando vedo passare il comandante della polizia penitenziaria esco dalla classe per andare a salutarlo. Mi piace condividere con lui questo “spettacolo” dell’impegno scolastico di cui avevamo parlato diverse volte. È il classico uomo tutto d’un pezzo, fedele servitore delle istituzioni, come ama autodefinirsi. Ha una lunga gavetta alle spalle: partito da agente semplice, pian piano è giunto al massimo grado di commissario. Viene da carceri “chiusi”, l’ultimo a Palermo, e si sta abituando alla realtà molto diversa del “penale” di Rebibbia, da sempre considerato carcere pilota per l’ampiezza delle offerte formative e culturali e la relativa libertà di movimento di cui possono godere i detenuti. Lo accompagno in classe: anche lui è positivamente sorpreso di quei ragazzi così presi dai “compiti” che quasi non si accorgono di noi. Ad un certo punto, uno di quegli improbabili studenti alza la testa: “No, è così pe’ ffa passa’ er tempo!”. Una sorta di excusatio non petita: non è così, lui lo sa e noi tutti lo sappiamo. Vuole solo liberarsi da una forma di imbarazzo che maschera il cambio di direzione in atto per le vite di quei ragazzi. Troppo brusco per essere accettato tranquillamente.