C’è un’ora nella notte in cui dormono tutti. Tutti tranne me. A quell’ora io sono sveglio, faccio le cose che si devono fare, cose che tramano con l’oscurità. Questa notte sono uscito di casa, mi sono concesso una lunga camminata a piedi, i passi mi hanno portato fino in via Indipendenza, davanti all’Arena del Sole di Bologna, alla statua di Garibaldi. Nell’ora della notte in cui dormono tutti, io posso parlare con le statue e loro mi rispondono.
Ho spiegato il problema, Garibaldi mi è stato a sentire. Prima che potessi chiudere il discorso, ha alzato il braccio, severo mi ha fatto un cenno di comprensione. Ha abbassato la mano sulla testa del suo destriero, l’ha accarezzata prima piano, dopo con un certo vigore. Il nitrito è tuonato potente, era l’ora in cui dormono tutti, solo Garibaldi e io l’abbiamo sentito. Dopo il nitrito, il balzo. Garibaldi e il suo cavallo sono atterrati sul selciato, proprio a centro della strada. Subito, ne sono sembrati i padroni. In quanto a me, un sorriso mi ha ingentilito i lineamenti.
Dovevamo sembrare le figure di una di quelle incisioni che illustrano il capolavoro di Cervantes. Io ero Sancho, camminavo piccolo e inconsistente di fianco all’eroe, questo vero e condottiero, imperioso sulla sua cavalcatura. Un po’ eroe mi sentivo anch’io, per la verità. Una sottile euforia mi attraversava i pensieri. Andavano a compiere un’impresa, le imprese hanno bisogno di eroi.
Garibaldi guardava dritto davanti a sé, non gli sarebbero piaciute molte delle cose che avrebbe visto se avesse puntato gli occhi altrove. Risalita via Indipendenza, abbiamo attraversato l’incrocio. A quel punto, Garibaldi ha avuto un sussulto, ha puntato sulla figura imponente del suo collega dio degli abissi. Si è fermato, mi è sembrato che abbia scambiato qualche parola col gigante nudo, quello lo ha accomiatato alzando il poderoso tridente. Per un istante ho sperato che venisse anche lui con noi.
Ci siamo infilati per stradine strette, io facevo ormai fatica a reggere l’andatura del destriero. Allora Garibaldi ha fatto fermare la cavalcatura, si è chinato, mi ha raccolto senza sforzo e mi ha issato in groppa, davanti a lui. Nel movimento, mi è sembrato che la sua barba sapesse di tabacco nobile. Io ero malfermo, la punta della sella mi tambureggiava il deretano. Garibaldi si è accorto del mio imbarazzo, mi ha sollevato di nuovo. Dopo, ho potuto godere la saldezza delle sue gambe. Dovevamo sembrare una figura male assortita. Io però mi sentivo cavaliere di due destrieri, insieme eravamo invincibili. Quasi mi dispiaceva di essere nell’ora della notte in cui dormono tutti, avrei avuto gusto a farmi ammirare così.
Lo slargo si annunciava a distanza, abbiamo raggiunto veloci la piazza, la porta, il giardino. Sulla terra, gli zoccoli del cavallo hanno ammorbidito il suono, subito si è fatto silenzio. La statua che cercavamo era grande, ma solo di altezza. Lo avevano fatto santo, lo chiamavano ancora padre, gli avevano dato un trono che ci pareva senza merito, un’usurpazione dei valori che consentono l’immortalità.
Appena ci ha visti, il monaco ha capito, ha cercato di fuggire. Garibaldi si è limitato ad allungare la mano, ad afferrargli il braccio sotto la tonaca, tenerlo stretto nel suo pugno. Con l’altra mano, mi ha aiutato a scendere da cavallo, dolcemente. Quando ho avuto i piedi per terra, l’altra statua era salda sotto il braccio dell’eroe, orizzontale sgambettava come un bambino che teme la sculacciata. Il destriero ha cacciato un nitrito lungo e profondo, ha scalciato, si è prodotto in una galoppata che me l’ha fatto perdere subito di vista, lui, l’eroe che lo cavalcava, l’usurpatore ormai domato.
Sono rimasto lì ancora per alcuni minuti, l’ora in cui dormono tutti stava per finire. La statua non c’era più. Se qualcuno avesse continuato a vederla, sarebbe stato solo un abbaglio della sua fantasia. Gli sarebbe convenuto farsela curare.