E’ un tonfo. Il vuoto risucchia. Il silenzio stordisce. Il display del cellulare è illuminato. Sono le 2 e 10 del 7 gennaio. “Corri, papà non respira. Corri”. Il volto terreo, gli occhi sgranati, i muscoli facciali tirati, balbetta. Il medico del “118” gli sistema l’ossigeno, l’infermiere riesce a fatica a prendere la vena. L’ago butterfly dosa il medicinale. Le gocce di speranza sono diluite in una soluzione fisiologica. “Lo stiamo stabilizzando. Occorre portarlo in ospedale, subito”. I minuti si rincorrono.
Pochi istanti e passa la vita di un uomo. Una persona onesta. Una persona perbene. Una persona che voleva vivere. Rubo pochi secondi e mi abbandono a ricordi accelerati, agitati, confusi, rassicuranti. E’ il torpore di un figlio che non deve avere paura. “Papà stai tranquillo: è l’influenza. Devono fare degli accertamenti”. Mento, è l’ennesima bugia. Lui lo sa. L’ambulanza sfreccia e giunge all’ospedale Vecchio Pellegrini, centro storico, Napoli. Arrivo qualche minuto dopo, percorro strade alternative per non finire nelle telecamere della Ztl anche di notte, anche con un’emergenza. Gli tengo la mano. La stringe. Lo sguardo è perso. La pressione scende a 20. L’ossigeno dalla maschera esce a getti. L’elettrocardiogramma sembra impazzito. Neppure una goccia di sangue per l’emocromo. “Che succede? Ditemi qualcosa”. “E’ grave. E’ un edema”. Lui, trova la forza e sussurra: “Due minuti, Liliana”. Esco. Chiamo mia madre. Ritorno. Blocco la barella. Il medico mi urla contro. Riesce a soffiargli un bacio e stringergli la mano. Quindici anni di fidanzamento, quarantaquattro di matrimonio. E’ la loro vita, è la nostra vita. Davanti all’unità di terapia intensiva coronarica ci siamo io e mia sorella. Immobili con i brividi e la voce tremante. Sentiamo il suo rantolo, i lamenti poi il silenzio. Il corridoio è deserto. Sono le 4 e 15. La guardia giurata, si avvicina, ci aiuta. Chiacchieriamo. E’ un altro dolore lontano, ci investe.
E’ figlio di un maresciallo dei carabinieri, medaglia d’oro al valore civile, ucciso negli anni ’70 a Palermo dal figlio di un mafioso latitante. Le nostre sono terre maledette, sfortunate. Mi trovo al Vecchio Pellegrini, un ospedale di frontiera. Ne ho visti di morti ammazzati, inutilmente soccorsi con i parenti inferociti che per reazione sfasciano suppellettili e vetrate. Non vola una mosca. I neon bianchi, accecano. C’è il cardiologo. Tiriamo il fiato. “La situazione sta precipitando, è critica. Non reagisce. E’ a rischio”. Lo trasferiscono al reparto di rianimazione: è intubato. Sono le 4 e 52. Mia madre si sorregge all’altra mia sorella. Non trovo lo spazio per fornirle una speranza. E’ disperata. Siamo disperati. Ci appollaiamo su di una panchina fuori la rianimazione. Il bollettino medico è fissato alle 13 e 30 mentre alle 18 e 30 possiamo vederlo da dietro un vetro. Non ha più un nome e un cognome: è il letto numero 7. “Abbiamo avviato tutte le manovre rianimatorie. I margini sono inesistenti. E’ un paziente gravato da una neoplasia in stato avanzato. Possiamo solo aspettare gli eventi”. E’ una sentenza senza appello.
Neppure una lacrima, solo rabbia e fiato che si spezza in gola. E’ una tragedia privata che in Campania e a Napoli ha le dimensioni di un’epidemia dai numeri raccapriccianti. Nessuno ne parla. Nessuno lo dice. Nessuno lo certifica. Almeno una famiglia su due ha un parente con un tumore. C’è ancora chi sostiene che non esiste una correlazione tra patologie, rifiuti tossici e inquinamento. Il corridoio della rianimazione è un limbo. C’è una madre che da venti giorni dorme su di una sedia. Sua figlia è attaccata alle macchine. Combatte tra la vita e la morte. Le bastano pochi minuti: la guarda e le fa un cenno. C’è una figlia che per la seconda volta vive lo stesso incubo: sua madre è di nuovo intubata. E’ grave ma stabile. C’è un uomo di mezza età con un infarto in corso. Sono storie che s’intrecciano. Drammi intimi che appartengono a tutti. C’è un’umanità vera e compassionevole che commuove. Incrocio lo sguardo delle mie sorelle. E’ terribile. Si aprono le porte, un letto esce con un corpo coperto da un lenzuolo verde. La sala mortuaria e a pochi metri. E’ panico. Sudore freddo. Paralisi. Si tratta, invece, di una signora: crisi cardiaca. Il nuovo bollettino non lascia scampo: “C’è un peggioramento. Presumibilmente non manca molto”.
Sono le 13 e 50 del 8 gennaio. Il mondo mi cade addosso. E’ la natura che lo impone: i figli devono seppellire i genitori non il contrario. Quante volte quell’ossessione mi ha inseguito. Un pensiero ricorrente e adolescenziale. Tuo padre, tua madre che muoiono. Adesso lo vivi e non sei affatto preparato. Inerme, disarmato, indifeso. Cerchi un appiglio. Un cazzo di gancio dove far oscillare un’anima in preda alla tempesta. Stringo i miei giornali. Ne compro quattro-cinque. Li accarezzo. Li abbraccio. Li sfioro. Sono la mia ancora. Fisso i titoli ma non li leggo. Guardo le firme in neretto: molti sono miei colleghi. Non sono solo. Li sento vicini, al mio fianco. Provo conforto. Il tonfo è alle 18 e 24. Un infermiere esce e ci chiama. Io e mia sorella rassicuriamo mia madre. La porta si richiude alle nostre spalle. “Vostro padre è in arresto cardiaco. I medici stanno attivando una serie di manovre. Ci aggiorniamo tra dieci minuti”. Resto un paio di minuti senza respirare. Fisso il muro. Cerco di far implodere il dolore. Sono le 19 e 43. Il rianimatore, il cardiologo e un anestesista ci chiamano. “Siamo dispiaciuti, il signor Eugenio ha smesso di vivere. Appena pronto transiterà nella sala mortuaria. La documentazione sarà a breve a vostra disposizione. Le nostre condoglianze sono sofferte e sincere”.
Appassionato di elettronica, radioamatore, nominativo I8cpe, membro dell’Ari, inventore di un sofisticato apparecchio dal nome “un secchio di energia” utilizzato nelle spedizioni in Africa, integerrimo funzionare del Comune di Napoli e falso contestatore del figlio giornalista: “Devi smetterla di rischiare la pelle, facci stare tranquilli, tanto non cambia nulla”. Per poi nel salutarti biascicare a denti stretti e con lo sguardo sbieco: “Quel pezzo mi ha emozionato. Bravo, vai avanti. Napoli è nostra, è degli onesti”. L’ho ascoltata per caso, all’inizio di dicembre direttamente dalla voce di Nino D’Angelo, s’intitola “O pate” è stata premonitrice: oggi te la dedico nel giorno del tuo 72esimo compleanno. Ciao Eugè!