Sono più qualificate rispetto ai colleghi maschi eppure fanno il doppio della fatica ad arrivare alle posizioni “che contano”, quelle di direttrice o caporedattrice. In Italia solo 14 giornaliste ogni 100, infatti, raggiungono ruoli apicali nel corso della loro carriera, al contrario degli uomini, che, nonostante titoli di studio più bassi, ci arrivano in quasi il doppio dei casi: il 27 per cento.
Le cariche più alte, come quelle di direttore o caporedattore, infatti, sono ricoperte da penne maschili quasi nel doppio dei casi rispetto alle colleghe donne. A rivelarlo è una ricerca dell’Osservatorio di Pavia media research dal titolo “Professione giornalista – Un’indagine comparativa sui percorsi di carriera delle giornaliste e dei giornalisti italiani”, a cura di Monia Azzalini. Nella ricerca, condotta intervistando 76 “penne”, 50 donne e 26 uomini, si mettono a confronto, divisi per genere, i percorsi, le aspettative e i problemi incontrati nel corso della carriera.
Oltre il triplo delle donne rispetto agli uomini riconosce di aver subito discriminazioni dovute al genere. Interessante però notare le motivazioni degli unici tre giornalisti maschi che si sono detti discriminati: due lo sono stati per aver chiesto il congedo di paternità. L’altro, invece, ha ammesso: “Diciamo che in qualche situazione ho avuto un’arma in meno di un certo tipo di colleghe”.
Se precariato, pressioni dalle lobby e colleghi scorretti, arroganti o raccomandati sono tra i problemi più comuni segnalati da giornalisti di ogni genere e età, tra le differenze che spiccano c’è il problema della conciliazione lavoro – famiglia, indicato come “difficile” da quasi la metà delle donne. “Non sempre però – specie fra le donne adulte e anziane – rinunce e sacrifici assumono una connotazione negativa, in diversi casi rafforzano anzi un’esperienza di vita vissuta come piena e soddisfacente”, si legge nel rapporto. Forse per favorire il lavoro da casa, le donne lavorano più degli uomini con contratti di collaborazione, che assicurano più flessibilità, pur avendo meno garanzie rispetto a un contratto a tempo indeterminato in redazione. Percorso accidentato e difficile, insomma, quello delle giornaliste italiane, che, nonostante titoli di studio di maggior livello rispetto ai maschi, trovano poco spazio ai vertici e vanno avanti perlopiù come “collaboratrici”.
Non meglio, però, va all’estero, dove, come ha mostrato nel Global media monitoring project del 2010, l’indagine sui contributi femminili nei media di 108 Paesi, “la visibilità delle donne nelle notizie è uniforme ed estremamente bassa”. Non solo le giornaliste sono in estrema minoranza a parlare di politica, economia, scienze, cultura, diritti, notizie delle celebrità. Ma persino su temi come candidate donne, violenza sessuale, moda, bellezza, fertilità e controllo nascite, le donne firmano pochissimi articoli. Più avanzano con l’età, poi, meno sono interpellate dai media in veste di “esperte”: oltre i 68 anni, una donna è chiamata in causa tanto quanto un maschio tra i 13 e i 18.
“Abbiamo esaminato le rubriche di commento perché predicono la leadership e la leadership di pensiero ai più alti livelli in tutti i campi”, spiegano le autrici di un altro studio, condotto negli Stati Uniti nel 2011 da The Byline blog (Il blog della firma), che per 11 settimane ha setacciato 7000 articoli di opinione delle più importanti testate statunitensi, dal New York Times all’Huffington Post, passando per i giornali delle università più prestigiose. Il risultato? Su 1410 articoli di interesse generale (economia, politica, sanità, istruzione), le donne ne hanno scritti solo 261. Le firme femminili trovano un po’ più spazio sul web, ma sono comunque relegate ai temi delle 4 “f”: food, fashion, furniture, family (cibo, moda, arredamento, famiglia).