Incapace di resistere al richiamo della foresta, John Boorman ha forzato tutte le realtà produttive in cui si è trovato a lavorare nella sua cinquantennale carriera. Dagli esordi nella televisione britannica alle esperienze hollywoodiane fino al ritorno in Irlanda, lo sguardo di questo cineasta allergico alle mode ha sempre posto allo spettatore delle domande precise, o meglio delle sfide, scavando nel rapporto tra natura e civiltà, mondo rurale e mondo urbano, utopia e opportunità. Un cinema potente, avventuroso, mosso da una stessa tensione che dal supercult Zardoz (1974) arriva al teorico e frainteso L’esorcista II – L’eretico (1977), dal sontuoso Excalibur (1981) passa al tenero e semibiografico Anni ’40 (1987) fino a The General (1998), Il sarto di Panama (2001), In My Country (2004).

Oggi ottantenne, il regista di capolavori come Un tranquillo week-end di paura (1972) e La foresta di smeraldo (1985) rimane uno dei pochi ad essere uscito a testa alta dal continuo gioco-forza con l’industria e i grandi divi, usati senza parsimonia già dall’esordio americano di Senza un attimo di tregua (1967) in cui giganteggiava Lee Marvin. Sotto i duelli e gli scontri, dentro le discese nella Storia, oltre le aperture smeraldine e i ricordi personali, restringendo di film in film il raggio dell’obiettivo, rimane il laccio invisibile di una visionarietà fuori dal comune, di “un’irruzione del magico che riporta alla dimensione in cui il mito è materializzazione plastica e pittorica, di figure d’anima, di stati inconsci, di ombre della mente, di visioni interiori, quasi sciamaniche”. (Bruno Roberti, Cinema Alchimia Uno, CaratteriMobili, 2012, p. 80)

Colpevolmente dimenticato in una filmografia di titoli forti, Leone l’ultimo (1970) è uno dei suoi lavori più grandi, oltre ad essere quello più scoperto nella teoria. Racconta la storia dell’ultimo rampollo di una ricca famiglia che, spiando la miseria del quartiere londinese in cui sorge il suo palazzo, finisce col guidare la rivolta del sottoproletariato urbano verso i suoi stessi possedimenti. Tratto da una commedia di George Tabori e interpretato da un geniale Marcello Mastroianni, è un apologo cristallino dove emerge tutta la follia e la radicalità del pensiero di Boorman. Un titolo da recuperare al più presto.
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