Parlare di musica… Scrivere di musica… Saperne di musica, e ostentarlo… Tutte cose che sempre più, col trascorrere del tempo, ho percepito come ardue. Forse impossibili? Semplicemente arroganti? Frank Zappa per i giornalisti musicali ha sempre avuto parole assai mirate e ficcanti, sicuramente non complimentose. Io in verità non ho mai provato disprezzo per tale categoria, anzi: se scopro una band nuova in genere è perché sono passato per giornali o siti. I giornalisti, alcuni fra loro miei ottimi conoscenti, sono persone che detengono migliaia di informazioni e posseggono migliaia di dischi con un amore e una passione encomiabili (sono soprattutto vinili, visto che parlo di miei coetanei o di persone più in là con gli anni).

Ma mi accade da tempo di non riuscire più a leggere le recensioni dall’inizio alla fine. Una volta erano il mio pane quotidiano, e le fagocitavo con entusiasmo per immagazzinare dati e decidere quali dischi comprare: avevo i miei giornalisti preferiti, e il mio gusto si forgiava anche grazie a loro. Ora mi tediano (pur mantenendo la loro utilissima funzione di farmi scoprire cose nuove: il fatto è che mi basta leggiucchiare qua e là, quasi sbirciando, come in una qualsiasi pagina virtuale, per capire se sono interessato oppure no), e in questo sentimento si fortifica la mia sensazione della complessità del parlare di musica (velleità?).
Ho il sospetto che di mezzo ci sia, ma solo in parte, qualcosa che ha anche a che fare con l’eccesso mostruoso di offerta musicale (siamo sempre lì, dalle parti del discorso sulla musica ai tempi di internet), però questo ragionamento mi porterebbe in un altrove dove sono già stato…

Oltre ai giornalisti che scrivono sui giornali e i siti (e oltre a tutti coloro che danno spesso fiato alla bocca tramite i polpastrelli nei vari forum e social network), vi sono nelle librerie parecchie pubblicazioni con ‘storie del rock, del jazz, della classica’ e affini. Recentemente mi sono imbattuto in quella che mi è sembrata la più stimolante e interessante io avessi mai visto (e le librerie le bazzico da anni ovviamente): sicché me la sono comprata. Si intitola ‘Mille dischi per un secolo – 1900-2000, è uscita per i tipi de Il Saggiatore ed è a opera di Enrico Merlin, musicista e storico della musica. Non lo conoscevo: è una persona assai colta in ambito musicale.
Mi permetto di consigliare caldamente questo libro a chi desidera approfondire, a 360 gradi, il senso di consapevolezza intorno alla bella (e spesso misconosciuta ai più) musica. Serve molta apertura mentale, quella che non tutti hanno, poiché il range d’azione, tanto per capirci, si muove fra estremi tipo il pop a larghissima diffusione di Michael Jackson e la classica (o come altro definirla) di compositori come Giacinto Scelsi o Morton Feldman (che ovviamente i più non conoscono).

Il pregio di questo libro, secondo me, è l’abilità di guidare il lettore curioso o avido a intercettare i veri ‘perché’ della preziosità dei lavori presi in considerazione, ovvero l’abilità del ‘parlare di musica’, andando al di là delle circonvoluzioni in cui spesso ci si imbatte nelle recensioni, usate per descrivere il contenuto di un disco agganciandolo a parametri estetici assai poco indicativi. Molto ha a che fare con il fatto che Merlin è un musicista, completo e colto, ma di quelli che sanno anche scrivere (e davvero bene, con capacità raffigurative e affabulazione), e questo gli permette di ottenere un livello di alta competenza tecnica divulgata non con le qualità del saggista ma con quelle del prosatore. Il tutto con una capacità di sintesi che permette a chiunque (perlomeno credo) di aver sempre voglia di leggere ogni scheda fino alla fine. Gli inviti agli approfondimenti, poi, si sprecano, e ciascuno può decidere se approfondire oppure no.

Sono dell’idea che anche chi crede di saper tutto o quasi dei dischi presentati (e ce ne vuole) possa scoprire punti di vista illuminanti per meglio mettere a fuoco i propri stessi ‘perché’.

Spiace constatare che la musica italiana è quasi del tutto assente. E mi spiace, anche ma non solo, perché per alcuni versi lo sento ragionevole (non posso non ammettere che il novanta per cento di ciò che ascolto in ambito non di musica classica è straniero, e dunque devo essere coerente. Ho l’impressione che Merlin condivida con me questa attitudine, un po’ da pregiudizio. E se mi sbaglio chiedo venia). Nella scheda su Creuza de ma si legge: “Nel corso del XX secolo pochissimi artisti italiani sono riusciti a produrre musica che fosse veramente originale, non succube dei modelli stranieri e questo è il motivo di una così scarsa presenza di autori italiani nel presente volume”.

Penso che questa spiegazione andrebbe analizzata, e si arriverebbe a confutarla il giusto. Penso anche che, però, in base al pregiudizio di cui ho detto e ai presumibili motivi e gusti di partenza che lo determinano, sia una spiegazione inevitabile per ‘giustificare’ ciò che alla maggior parte degli appassionati ascoltatori italiani a cui piace veramente la musica di un certo tipo risulta essere una insoppromibile e purtroppo sensata dipendenza esterofila (d’altronde nel libro non si parla certo, se non erro, di gruppi bulgari, o cecoslovacchi, o armeni, o yugoslavi, e nemmeno compaiono chissà quanti olandesi, o norvegesi, o greci… Insomma: la matrice è anglosassone, e per chi sta dietro al rock quello è l’unico vero mondo di riferimento. Discorso lungo, immagino…)

Ma non ha nessuna importanza che vi sia o non via quel certo disco piuttosto che un altro: sono comunque 1000, e ce n’è per tutti i gusti.

Vi lascio non con il solito link a una nostra canzone, ma con la mia doppia playlist personale del 2012 (una di rock e affini, una di jazz e affini), in cui a ogni disco scelto dedico qualche parolina esplicativa, ‘parlando di musica’. 

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La Repubblica tradita

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