Sono pochi i libri – almeno nell’ambito della narrativa italiana – di cui si possa ancora dire che siano necessari. E non necessari nel senso di utili, perché se un libro è scritto bene o è addirittura bello, è sempre anche utile. Ma necessari nel senso civico e storico-culturale del termine. Nessuno sa di noi (Giunti Editore), scritto da Simona Sparaco, appartiene a questa ristretta cerchia di eletti.

Nessuno sa di noi racconta la storia di una coppia in attesa – Luce e Pietro – che si trova di fronte a una delle situazioni più inconcepibili che possano capitare a un genitore: la diagnosi di una gravissima malformazione genetica (la displasia scheletrica) ottenuta dopo il termine consentito dalla legge italiana per l’aborto terapeutico. La storia di una donna e di un uomo che sono chiamati a compiere una scelta impossibile: mettere al mondo il proprio figlio condannandolo a un’esistenza (forse molto breve o forse, che è anche peggio, molto lunga) di dolorose operazioni chirurgiche oppure recarsi all’estero, nello specifico in Gran Bretagna, dove la legislazione non pone limiti di tempo per l’aborto ma solo limiti legati alla gravità della patologia e alla sua compatibilità con la vita. Una scelta, questa, che nasconde in realtà un dilemma a cui non è dato rispondere: che cosa significa amare in questi casi? Che cosa significa dare – donare – la vita?

Sull’aborto c’è una scarsa letteratura (il libro più noto sull’argomento resta Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, che risale al 1975). Sull’aborto oltre i termini consentiti dalla legge, poi, non c’è praticamente nulla; né un saggio, né un documentario, né un’inchiesta giornalistica. Nessuno racconta di quelle coppie che avendone la facoltà economica possono scegliere se varcare o meno il confine, e di quelle che invece non disponendo della stessa facoltà sono private anche della libertà di scelta.

L’aborto è a tutt’oggi un tema tabù. Uno di quei temi di cui in questo paese non si può – e non si deve – parlare (a maggior ragione in un periodo di campagna elettorale). Un tema controverso in cui il confine tra giusto e sbagliato è precario, cedevole, slittando in continuazione. Un tema che è dunque difficile incapsulare in un facile slogan, e che piuttosto che generare un dibattito civile finisce sempre con l’alimentare scontri radicali tra fazioni contrapposte: chi è a favore della vita a oltranza (i cosiddetti pro-life) e chi è considerato alla stregua di un assassino o un infanticida.

Per questo è importante che se ne parli. Per questo è importante che le donne ne parlino. Perché di certi argomenti hanno forse il diritto di parlare solo i testimoni e i sopravvissuti. Tutti gli altri dovrebbero fare un passo indietro, e ascoltare. Tuttavia, proprio le donne sono troppo spesso vittime – e, a volte, involontarie complici – del silenzio omertoso della vergogna e del senso di colpa; interiorizzando così un pregiudizio sociale che le vuole non parte lesa bensì ree di un gesto mai giustificabile e sempre sbagliato. Ma chi ha davvero il diritto di usare le parole mai e sempre di fronte al dolore di una madre?

Di questo parla il romanzo Nessuno sa di noi di Simona Sparaco. Delle infinite forme dell’amore materno. E lo fa con una lingua morbida, plastica, che s’insinua nei più segreti accessi del cuore, e con una voce lucida e sincera, che nulla risparmia, e che così facendo tutto rispetta. Con un diario intimo e struggente da un luogo d’esilio, vicino a ognuno di noi, ma sconosciuto ai più, rimosso dalla coscienza collettiva ed estirpato dal dibattito pubblico. Un romanzo necessario – come si diceva – che ci chiede, se non di cambiare idea, almeno di rimettere in discussione il modo in cui siamo abituati a pensare la relazione tra espressioni come “egoismo”, “amore materno” e “aborto”. 

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