Il mercato immobiliare è in crisi, a Roma ci sono circa 250mila case sfitte, la popolazione non cresce ormai da anni, ma nella Città eterna si continua a costruire anche vicino ai resti di ville romane o “tralasciando” i vincoli paesaggistici. Uno degli stratagemmi preferiti per continuare a edificare si chiama “compensazione”: strumento giuridico che ha permesso ai potenti costruttori romani di trasferire gli edifici previsti in alcune zone in altre, spesso facendo crescere le cubature.
Nella periferia sud della Capitale, si rischia una nuova colata di cemento, targata Pietro Mezzaroma. Il progetto, denominato I-60, prevede ben 30 palazzi, tra i 4 e i 7 piani d’altezza, numero di residenti stimato 4.760. “Un’opera gigantesca alla quale ci opponiamo da tempo – spiega Giuseppina Granito, del coordinamento “Stop I-60” – che sorgerà sopra due tracciati stradali con basoli, resti di una necropoli risalente al I e II secolo d.C. e una villa di età romana con pregevoli mosaici”. Il comitato, a giugno scorso, ha fatto ricorso al Tar di Roma contro quello che potrebbe trasformarci in uno scempio. “Sono anni – denuncia Granito – che ci opponiamo in tutti i modi. Addirittura, nell’imminenza di una manifestazione che avevamo organizzato per il 21 aprile 2011, tutti i ritrovamenti archeologici sono stati ricoperti in fretta e furia”.
L’importanza archeologica della zona è sottolineata da una nota del maggio 2009 della Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma che ha rilevato il “carattere insediativo archeologico della vasta area” e ha chiesto, con numerose comunicazioni, verifiche di approfondimento, proseguite fino al 18 aprile 2011 quando, nell’imminenza della manifestazione di protesta, tutti i ritrovamenti archeologici sono stati ricoperti. Dalla Soprintendenza ci tengono a precisare che “il miglior modo di tutelare resti archeologici, quali possono essere quelli di una villa romana, è quello di interrare i ruderi. E’ ovvio che preferiremmo portare alla luce l’intero complesso per valorizzarlo ed ampliare il patrimonio storico-artistico della città ma non ci sono soldi. Chi fa la manutenzione ordinaria del sito?”.
Tre anni di studi e rilevazioni hanno stabilito che l’area archeologica in questione nasce verso la fine del II secolo d.C. come fattoria romana, al termine di uno dei periodi più floridi della storia di Roma, l’età degli imperatori adottivi, iniziata nel 96 con l’elezione di Nerva e terminata con la morte di Commodo, figlio di Marco Aurelio, l’unico successore non “adottato”. Una tenuta strutturata per la produzione di vino che, nel tempo, si è evoluta a villa suburbana. Uno sviluppo testimoniato dall’ampliamento dei vani, alcuni ambienti decorati con mosaici con disegni geometrici e ornamenti vari del III secolo d.C., la trasformazione di due vani in una sorta di piccola zona termale personale, con un ambiente dotato all’epoca di un sistema di riscaldamento del pavimento e di una parete e una cisterna trasformata in vasca da bagno. Oltre alla villa vi sono due tracciati stradali con basoli, uno probabilmente univa la via Ardeatina con la via Anagnina. Nell’area è presente anche una necropoli con 694 sepolture e 4 sarcofaghi.
Una situazione delicatissima, insomma, non solo per i ritrovamenti archeologici ma anche per l’assenza di una valutazione impatto ambientale, oggetto di un esposto alla Procura di Roma da parte del senatore Stefano Pedica, ex Idv ora in Diritti e Libertà. Sebbene la normativa nazionale e comunitaria subordini le opere di urbanizzazione ad elevato impatto ambientale proprio alla VIA, in questo caso la stessa è stata completamente bypassata da parte della Regione.
Altra vittima sacrificale della compensazione è l’Agro Romano – la vasta area a vocazione agricola intorno alla Capitale – in buona parte sottoposto a vincolo paesaggistico, ma a rischio concreto di edificazione. “La compensazione – spiega l’urbanista Paolo Berdini – è la peggiore eredità che le amministrazioni degli ultimi 15 anni hanno lasciato ai cittadini. C’è stata una corsa in tutta la Capitale ad accaparrarsi le aree migliori per le cubature inizialmente previste in altre zone. In questi passaggi, tra l’altro, i volumi sono anche triplicati”.
L’area di campagna romana intatta di Paglian Casale, a sud ovest della Capitale, in una zona di estrema bellezza paesaggistica, è un po’ l’esempio emblematico di questo meccanismo perverso. Il 4 luglio scorso il ministero dei Beni Culturali ha rilasciato il nulla osta per la realizzazione di un nuovo progetto edilizio in una zona protetta dal vincolo paesaggistico dell’Agro Romano, imposto nel 2010 dal medesimo ministero: una colata di cemento che, nelle controdeduzioni della direzione regionale del Mibac, è stata considerata compatibile con lo stesso vincolo, circa 7mila i residenti previsti. A proporre il progetto un altro re del mattone, Leonardo Caltagirone, lo stesso del Parco Leonardo, mega centro commerciale a due passi dall’aeroporto di Fiumicino a metà degli anni 2000, insieme all’immobiliarista Paola Santarelli.
Un altro milione di metri cubi di cemento, anche se, la relazione del Mibac che aveva apposto in questa zona il vincolo paesaggistico è molto chiara. “Fra i beni storici, archeologici e architettonici della zona circostante – spiega Mirella Belvisi di Italia Nostra – vi sono torri medievali, realizzate a partire dall’VIII secolo d.C. in gran parte riutilizzate nei secoli seguenti come punti di vedetta nonché per l’organizzazione delle innumerevoli fattorie, la cui costante presenza è testimonianza della vocazione agro-silvo-pastorale di questa terra lungo tutto il corso della storia: dall’età romana in cui erano presenti numerose ville rustiche, alle torri medievali, ai “casalia” rinascimentali, per finire ai casali più recenti risalenti al tempo delle bonifiche realizzate a cavallo tra Otto e Novecento. Un vero unicum italiano degno di tutela da parte dello Stato, quale testimonianza dei rapporti incomparabili fra Roma e la sua campagna, unico caso al mondo fra le capitali mondiali”.