Per gli istituti di credito italiani negli ultimi tempi molte cose hanno iniziato a girare per il verso giusto, dall'effetto a catena dello spread in discesa sui Btp in portafoglio, alle regole comunitarie più leggere. Ma dietro l'angolo c'è l'effetto boomerang della stretta su consumatori e imprese
Le ultime previsioni della Banca d’Italia sul futuro del Paese sono state impietose, ma la recessione, almeno al momento, non sembra uguale per tutti. Se per famiglie e imprese è ancora buio pesto, infatti, c’è qualcuno che la famosa luce in fondo al tunnel ha almeno iniziato a intravederla. Le banche. Mentre ogni mese falliscono 1.000 aziende e ogni giorno spariscono 2.000 posti di lavoro (stima Uil) per gli istituti di credito italiani, infatti, negli ultimi tempi molte cose hanno iniziato a girare per il verso giusto. A partire dallo spread, ossia il differenziale di rendimento tra titoli di stato italiani e tedeschi, che si è più che dimezzato passando dai 540 punti dello scorso luglio ai 260 attuali. Non troppo lontano, cioè, da quei 200 punti che la Banca d’Italia considera il valore corretto alla luce delle oggettive differenze tra le economie e le finanze dei due Paesi.
L’EFFETTO SPREAD. Un particolare non da poco per gli istituti di credito, per i quali conta molto il fatto che la discesa del differenziale stia lentamente trasformando in oro quello che fino a ieri era spazzatura se non peggio. Cioè i 360 miliardi di titoli di Stato italiani che le banche hanno in pancia e che sono stati acquistati utilizzando anche parte dei circa 260 miliardi di euro elargiti a tassi d’interesse irrisori dalla Bce: a questi valori si stanno rivelano un ottimo affare. Tanto più che ora che gli scenari più apocalittici come sbriciolamento dell’area euro e ristrutturazioni del debito sembrano allontanarsi, i Btp italiani appaiono semplicemente come un investimento che offre rendimenti molto alti per il rischio, al momento non così elevato, che comporta.
I GUADAGNI IN BORSA. Di conseguenza, secondo punto, il ritorno di fiducia sulle prospettive delle banche italiane si è tradotto in una cavalcata delle quotazioni azionarie. Numeri alla mano, dallo scorso luglio l’indice settoriale di Piazza Affari dedicato agli istituti di credito ha messo a segno un notevole +80 per cento. In pratica una banca italiana vale oggi in Borsa quasi il doppio rispetto a sei mesi fa. Persino la moribonda e semi nazionalizzata Monte dei Paschi di Siena, ha portato a casa un progresso del 90 per cento giovando alle apprensioni dei suoi azionisti, specie quelli come la Fondazione Montepaschi che hanno dati in pegno i titoli dell’istituto a garanzia dei prestiti ricevuti.
IL RITORNO DEGLI INVESTITORI. Terzo fattore non da poco, l’anno scorso di questi tempi nessuna banca italiana si sarebbe azzardata a offrire sul mercato una propria obbligazione: se mai qualcuno l’avesse acquistata avrebbe chiesto in cambio interessi da capogiro. In questo primo scorcio d’anno, invece, i collocamenti dei bond vanno a gonfie vele: Intesa San Paolo, Bpm, Unicredit si sono ripresentati sul mercato e sono stati accolti da una pioggia di ordini. La raccolta presso la clientela è inoltre tornata a crescere e migliora mese dopo mese.
LE CONCESSIONI DEI REGOLATORI. Ciliegina sulla torta le banche centrali si sono accordate per una “versione light” di Basilea 3, ossia delle nuove regole sui requisiti patrimoniali che stabiliscono in pratica quanti rischi una banca si può prendere in relazione alle risorse di cui dispone. Le nuove regole risultano meno severe rispetto alla formulazione iniziale e la loro applicazione viene spalmata su un periodo di 5 anni.
I CORDONI DELLA BORSA RESTANO CHIUSI. A questo punto sarebbe lecito pensare che le banche abbiano contestualmente ricominciato a fornire ossigeno all’economia reale e alle famiglie allentando un poco i cordoni della borsa. Tornando, insomma, ad essere un motore e non un freno dello sviluppo, a fornire risorse invece di drenarle. Tuttavia, almeno per ora, niente di tutto questo sta accadendo. Le ultime cifre della Banca d’Italia sono impietose e mostrano una tendenza esattamente opposta. Sia per le imprese, specie se piccole, sia per le famiglie a stretta del credito si sta infatti anzi intensificando.
LE IMPRESE SOFFRONO. “Capiamo le difficoltà delle banche che pensano prima si tutto a salvare se stesse – afferma Giuseppe Bortolussi della Cgia di Mestre – ma così facendo rischiano di tagliare il ramo su cui sono sedute”. Il tessuto produttivo italiano, ragiona Bortolussi, è composto di piccole e piccolissime imprese che sono generalmente sottocapitalizzate e non hanno alternative ai finanziamenti bancari. Se questi si interrompono l’impresa fallisce. “Sono comunque fiducioso che nei prossimi 3–4 mesi possa esserci qualche ricaduta positiva e che le banche ricominceranno a fare prestiti. Non solo alla Pubblica Amministrazione come avviene ora ma anche alle Pmi che sono quelle dove si crea davvero occupazione”.
MUTUI D’ORO O FERMI. Tra i settori più penalizzati dalla stretta creditizia c’è, ovviamente, quello immobiliare. Nel 2012 l’erogazione di mutui si è ridotta del 42% ma non basta. Quel che è peggio è che il costo dei mutui italiani continua ad essere tra i più alti d’Europa con un tasso medio del 4,05%. E’ comprensibile che un finanziamento costi meno in Germania o in Austria (tasso medio del 2,9%) molto meno che questo accada anche in Spagna (3,6%). Non dovrebbero dunque sorprendere i ripetuti segnali di cedimento che giungono dal mercato italiano. Per il 2013 il gruppo Tecnocasa si attende ad esempio una flessione delle compravendite fino al 5% mentre l’agenzia Fitch stima un calo dei valori immobiliari addirittura del 13 per cento.
Elio Lannutti, presidente Adusbef, associazione che tutela gli utenti delle banche, è pessimista. Ritiene infatti che famiglie e piccole imprese non trarranno nel breve periodo nessun beneficio dal miglioramento della situazione degli istituti di credito. “Le banche italiane continuano a taglieggiare la clientela praticando tassi e commissioni ben superiori agli altri Paesi europei. Per un mutuo trentennale di 100mila euro un cittadino italiano finisce per pagare 26mila euro in più rispetto alla media dell’area euro”, sostiene. “Questo avviene senza che Banca d’Italia e autorità di vigilanza dicano nulla – continua Lannutti – dimostrando una grave latitanza in quella che dovrebbe essere la loro opera di controllo”.
Questa dinamica finisce però trasformarsi in un boomerang per le stesse banche andando ad acuire il problema delle cosiddette “sofferenze”, vero e proprio tallone d’Achille dei nostri istituti di credito. Si tratta in pratica di quei prestiti che rischiano di non essere più recuperati o possono esserlo solo in parte. Se il valore di un immobile che funge da garanzia scende al di sotto del prestito che mi ha concesso la banca e se io non pago parte della cifra andrà perduta. Le sofferenze hanno ormai superato i 122 miliardi di euro con un aumento di quasi il 17% sul 2011, una zavorra che per di più viene ritenuta sottostimate da diversi analisti e che risulta sensibilmente superiore ai valori medi europei.
A questo proposito vale la pena ricordare che c’è un altro “regalino” che le banche stanno impacchettando per le famiglie maggiormente in difficoltà, quelle che non ce la fanno più a pagare rate di prestiti. Alcuni istituti di credito stanno infatti definendo delle intese per cedere le loro sofferenze a società specializzate nel campo del recupero dei crediti, con il risultato che le famiglie verranno messe ancora più sotto torchio. Temi non da poco, ma finora totalmente assenti da una campagna elettorale fin qui “Imu centrica”. Anche se andando avanti di questo passo il rischio è che il problema del pagamento dell’Imu si risolva da solo, visto che solo pochissimi eletti potranno permettersi una casa di proprietà.