Si è detto, e pure lui lo ha ripetuto più volte, che Corona incarnava il berlusconismo, il mito del successo e del denaro. Ma avrebbe anche potuto non farlo, avrebbe potuto essere qualcun altro. È pronipote di un compositore siciliano, Gaetano Emanuel Calì, soprattutto è figlio di un grande giornalista, Vittorio, che fu anche art director e vicedirettore della Voce di Montanelli e morì qualche settimana prima dell’arresto di Fabrizio per la vicenda Vallettopoli. Recentemente ha detto che il padre sarebbe fiero di lui. Chissà, certo sarebbe addolorato, come si sono detti i fratelli e la mamma che nelle prime ore di latitanza pubblicamente gli hanno chiesto di costituirsi. Ma la prospettiva di passare almeno tre anni in carcere (con l’incognita degli altri procedimenti) non è esattamente “figa”: lui c’è già stato in prigione, un paio di mesi. Sa cosa vuol dire. Così, anche il maschio Alpha scappa, anche se la fuga non è esattamente un comportamento virile. Del berlusconismo c’è in questa storia – oltre ai soldi e alle donne, ossessivamente sbandierati dall’uno come dall’altro – l’idea di essere in qualche modo diversi. Migliori. Onnipotenti. Comunque non assoggettabili alle regole che valgono per tutti. Essì, perché l’uguaglianza vale nelle democracy, non nelle videocracy. Invece Corona è rimasto fregato dallo specchio, quello in cui si rimira nudo e compiaciuto nel film di Erik Gandini.
Credeva nell’impunità della bellezza, del consenso (ma c’è davvero tanta gente che lo ritiene un mito?), del grano, della televisione. Ma questo non è un film e nemmeno un programma tv. Non è un reality, ma la realtà proprio. Non c’è la pubblicità, non ce la si cava con una battuta, una cazzata, non si può buttare la palla fuori dal campo per creare un diversivo. E qui l’intelligenza, la potenza, il genio del maschio Alpha servirebbero non per fare audience o incassare assegni, ma per fermarsi a dieci centimetri dal baratro. O dal portone di San Vittore.
Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2013