Sarebbe bello avere meno parole da spendere e meno soldi da dover guadagnare. Le parole hanno in sé la debolezza delle convenzioni e la frustrazione dell’impalpabilità. Ma tutto sommato quelle mi hanno lasciato e queste restituisco, anche quando vorrei invece scagliare una pietra, occupare un palazzo o spegnere un macchinario che va. E allora il passo incespicante di tutte le mie piccole parole timide e in fila indiana si porta nello zainetto un arcobaleno di immagini che non saprò raccontare mai.

Viviamo da più di dieci anni l’epopea della liberalizzazione del massacro civilizzato. Dal 2000 in avanti non passa mese senza che venga fuori notizia di gesti violenti e di abusi da parte delle forze dell’ordine. Ovviamente spesso il pretesto da cui scaturiscono è il tacito consenso ad una deriva repressiva nella gestione delle manifestazioni di piazza. Ma Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Emmanuel Bonsu Foster e molti altri ragazzi sono stati al centro di vicende che raccontano come una costante progressione violenta nella gestione dell’ordine pubblico, trasversalmente assecondata dai governi e accompagnata ad una sostanziale impunità per chi è stipendiato con le nostre tasse, non possa che penetrare nel quotidiano delle nostre città. E così le vittime potenziali sono le vittime reali della diffidenza verso i matti, i giovani che fanno tardi, gli stranieri o qualsiasi altra forma di discriminazione più o meno razziale che baleni nella testa dell’impunibile che quella sera porta una divisa e un’arma.

Io non sono tifoso dei giuramenti in generale né tantomeno dell’ideologia militare, ma se lo fossi dovrei chiedere una lunga serie di processi per alto tradimento. Non sono tifoso dell’informazione cartacea e televisiva, ma se lo fossi vorrei non si parlasse con una costanza non episodica di abusi di potere episodici ma che si parlasse della repressione come di un problema reale della nostra democrazia presunta. Infine, non sono tifoso della nostra classe dirigente – sempre la stessa, negli ultimi vent’anni – ma se lo fossi – e qui lo sforzo di fantasia mi è audace – non vorrei coltivare nemmeno il dubbio lontano che tale deriva sia figlia di un disegno che vede complici e committenti governi e istituzioni, che hanno bisogno di sapere il dissenso soffocato e distratto, le case chiuse bene a chiave e i frustrati soddisfatti di poter addentare l’idea di un mondo di marzapane fatto di cattivi e buoni, amici e nemici.

E allora le parole non bastano. Non ti lasciano correre altrove. Le parole sono lì per creare recinti. Per dire facinorosi, violenti, drogati, fannulloni, schizzinosi, borghesi, sciacallaggio. Recinti buoni per starci dentro tutti insieme, vittime, mandanti e complici dalla coscienza pulita. Chi le ha prese, chi ha ammazzato Aldro, chi era lì quando è morto Stefano Cucchi e non ha mai detto nulla. Tutti nella stessa trasmissione di seconda serata, al posto delle vallette o dei plastici dei delitti. Tutti nella stessa chiacchiera miserabile. Perché la nostra generazione, per tanti motivi per lo più indipendenti da noi, è una generazione diversa e viaggia con un mondo più veloce. Ma le altre credono ancora che la realtà la si veda dentro ad una scatola con uno schermo che ogni due anni va cambiata. Una scatola dove le parole sono modi di dire e le immagini sono di repertorio. Ci hanno costruito intorno una prigione di parole e per anni l’abbiamo arredata come fosse la casetta dei nostri sogni. Poi quelli che avevano qualche anno in meno e un udito un po’ più giovane hanno iniziato a sentire rumori strani là fuori. E piano piano sono usciti a riprendersi la strada, e hanno iniziato a correre. Erano le parole a tenerci rinchiusi, per correre ci vogliono i suoni, le immagini, le sensazioni.

E allora il racconto della fine del mondo che tutti si aspettavano e nessuno si è accorto che è arrivata passa per una lunga serie di immagini. Nelle piazze, ancora, ma questa volta nelle piazze vuote, calcate per ore da studenti, pensionati, operai scappati qua e là, segnate dalle ferite dell’asfalto lasciato all’ombra a respirare il macabro carnevale dei pestaggi voluto dal palazzo, tra le macerie di un mondo vecchio che sta per morire e dei libri rotti di gomma piuma colorati. Hanno picchiato “L’isola di Arturo”, hanno picchiato “Il piccolo Principe”. Hanno preso a manganellate “Delitto e castigo” e pestato “La luna e i falò”. Hanno sfasciato “Piccole donne”, “Il maestro e Margherita” e “Il tamburo di latta”. Hanno devastato “La ricerca del tempo perduto” e distrutto “Le anime morte” per distrarsi dal fatto che sono loro che stanno per morire.

Hanno provato a prendersi ciò che non sanno, perché troppo sicuri, troppo piccoli e troppo ignoranti. E a loro è rimasto solo un poco di mal di testa e un senso di sconfitta per aver speso la vita a lottare contro un muro di gommapiuma. Si lascia la casa vecchia per la strada nuova, anche se non abbiamo ancora trovato le parole per raccontarla e abbiamo solo le gambe per correre. Che picchino, sbraitino, raccontino che dobbiamo obbedire ai nostri aguzzini e dire grazie. Stringono tra le mani solo la copertina di un libro che non sanno più interpretare. Non vedono, non ascoltano, non sentono più niente ormai a parte le loro parole fatte di recinti. Quasi non fanno neanche più male i loro colpi in bocca e sulle gambe. Quasi fanno solo pena nei loro sforzi di sopravvivenza nei sondaggi e negli accordi elettorali. Quasi non si vedono più: sono soltanto vecchie parole.

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