Ora mi sbarbo, mi vesto, esco, e vado a comprarmi le sigarette di contrabbando. Con tutta la scorta, chi se ne fotte. Sono stanco, davvero. Sento che sto per esplodere. Ieri è venuto a trovarmi un prete, splendida persona. Uno di quelli di frontiera, uno di quelli che rischiano. È entrato, ha spalancato le braccia e mi ha stritolato come se ci conoscessimo da trent’anni, come se frequentassimo lo stesso pub. Si è seduto, ma solo dopo che m’ero seduto io. Ha sfilato un pacchetto da qualche tasca segreta dentro il saio e me ne ha offerta una. Prima ha acceso la mia, poi la sua. Ha detto “allora?”. Faceva oscillare la testa avanti e indietro, come i piccioni di piazza Duomo. E sorrideva. Ma sorrideva tanto, eh, tantissimo. Si aspettava che gli parlassi di cose emozionanti, di guerre combattute e vinte, di vita da rockstar. Ho sorriso anch’io. Ha detto “che mi racconti?”. Ho detto “tutto bene. Tu?”. Ha continuato a sorridere. A un certo punto sembrava che avessimo una paresi. Mi ha parlato del bene e del male, delle difficoltà, dell’eterna lotta. Gli ho detto “ho ascoltato Michel Petrucciani. Lo conosci?”. “Certo”, mi ha risposto, “era bravo. Bravissimo”. Poi ha ripreso col bene e col male, con le difficoltà, con l’eterna lotta. Ci siamo salutati e mi ha stritolato ancora. Lo aiuterò, per quello che posso. È una brava persona. E non è facile. Non è scontato. Solo, avrei voluto che mi parlasse davvero. Che si sedesse prima di me, magari. Che accendesse la sua sigaretta prima della mia. Che si dimenticasse di offrirmela. A volte mi tasto le braccia, tiro la pelle fra il pollice e l’indice e cerco di vederne i pori. Mi capita spesso, ultimamente. Devo ricordarmi che esiste Roberto, oltre a Roberto Saviano. Devo ricordarlo a me stesso nella speranza che questa cosa risulti chiara anche agli altri. Quando me ne dimentico, è come se fossi in gabbia. Ho come l’impressione di dover supplire a una mancanza generale.
Viviamo in un’epoca in cui si cercano eroi anticamorra per non dover creare dei cittadini anticamorra. E quando li trovano, gli eroi anticamorra, provano a imbalsamarli, a renderli eterni e immutabili, sempre uguali a se stessi, perché quello è il bastone su cui si reggono tante coscienze. Se provi a svicolare ti bastonano. Vogliono la plastica, non vogliono la carne. Perché la carne fa le persone, e le persone sono imprevedibili, inaffidabili e ballerine. Se dovessi scrivere su un foglio quello che adesso mi dice la testa, sarebbe… Vabbe’, lasciamo stare.
Oggi è venuto a trovarmi un politico. Era una semplice chiacchierata, niente di più, ma abbiamo dovuto vederci in segreto, altrimenti i giornali avrebbero riattaccato con la solfa della mia candidatura e sai che palle. Non so più come cazzo dirlo. Capisco che uno debba riempire le pagine, ma quella di rompere il cazzo al prossimo non è proprio un’occupazione cristiana. Questo qui che è venuto a trovarmi, è uno pulito, al di sopra di ogni sospetto. Certo, è pur sempre un politico. Ha detto “allora, come andiamo?“. Ho detto “bene, grazie”, poi mi sono alzato per fermare il disco di Chilly Gonzales. Lui ha aspettato che tornassi a sedermi, ha sorriso, ma proprio tanto. Allora ha detto “l’Italia ha bisogno di persone come te. La gente ha bisogno di sapere che tu…”.
Ho detto “io ho bisogno…”.
Ha detto “… sì?”.
Ho detto “… niente. Ho bisogno di un caffè. Ne faccio portare un paio”.
di Stefano Piedimonte, nato nel 1980 a Napoli si è laureato all’università «L’Orientale». Dal 2006 lavora per il «Corriere del Mezzogiorno», prima come cronista di nera e poi come redattore web della testata. Ha appena pubblicato con Guanda il romanzo “Nel nome dello zio”.