A un anno di distanza tornano con un nuovo album intitolato “Somewhere” gli Stoop, una delle realtà più interessanti che l’ambiente indie attualmente offre. La band reggiana formata da Diego Bertani (chitarra elettrica, acustica e voce), Carlo Pinna (chitarra acustica ed elettrica, synth, percussioni e cori), Fabrizio Bertani (batteria e voce), Marco Ponzi (basso), Simone Benassi (tromba, synth e cori) e Marco Parmiggiani (chitarra elettrica, pedal steel guitar, synth e piano) è una vecchia conoscenza per i frequentatori di questo blog. Ne avevamo già parlato in occasione del precedente “Freeze Frames”, album in cui avevano espresso un carattere decisamente più rock e distorto, in questo “Somewhere”, invece, è il suono delle chitarre acustiche a farla da padrone – perché “non c’è nulla di più emozionante del suono naturale delle corde, del legno degli strumenti” confessa Diego il frontman della band –, del banjo, del mandolino e della tromba, che riaffiora sempre e accompagna il cantato, guidando anche il loro approccio creativo. Un disco dove regna un senso di spaesamento, uno smarrimento che però è anche carico di possibilità. Del resto, sono convinti, non avere una strada precisa da seguire non è necessariamente una cosa negativa. E loro, dediti a una costante ricerca, perlustrano territori musicali mai raggiunti prima d’ora e disco dopo disco confermano di star costruendo una solidità di base che mantiene l’aspetto di un progresso. Prerogativa per una maturazione che potrebbe portarli a una definitiva, insperata, consacrazione.
Il vostro ultimo lavoro si intitola “Somewhere”. Ascoltandolo se ne ricava l’impressione di un mutamento che però conserva una sorta di “spirito” riconoscibile. Mi raccontate come è nato, da cosa sono state ispirate le canzoni e qual è il motivo che vi ha spinto a intitolarlo così?
Il disco è stato registrato in maniera completamente differente dai due precedenti. Avevamo da poco registrato uno strumentale di 29 minuti per un’installazione d’arte contemporanea (Presepe Apparente, realizzato da Michelangelo Galliani, Marco Petacchi e Massimiliano Galliani). Era la prima volta, come STOOP, che ci cimentavamo in composizioni di questo tipo e ci siamo sentiti molto più liberi dal punto di vista compositivo rispetto alla nostra più tradizionale ricerca della forma-canzone. Decisi a mantenere lo stesso approccio per il disco, siamo entrati in studio con pochissimo materiale da cui partire, brandelli di idee. I brani quindi sono nati soprattutto da improvvisazioni, registrate suonando tutti insieme in una stanza, e questo ci ha permesso di cogliere anche le imperfezioni, che hanno reso il nostro suono più vivo e dinamico; un grosso cambiamento per noi rispetto alla fredda registrazione a tracce separate. Per quanto riguarda poi le sonorità, abbiamo eliminato molte chitarre, sostituite da Rhodes e Synth analogici. In generale, abbiamo usato più elettronica, tutta suonata però. Entrare in studio senza materiale porta inevitabilmente, soprattutto nei primi giorni, anche un po’ di scoraggiamento e di spaesamento. ‘Da qualche parte sicuramente arriveremo’. Ed ecco quindi il titolo. Somewhere. Da qualche parte.
Le vostre canzoni tendono a evocare soprattutto atmosfere. In generale qual è lo stato d’animo all’interno del quale preferite lavorare?
Il disco è meno sinistro del precedente Freeze Frames, che era permeato da un suono scuro e testi carichi di tensione. Ad accompagnarci durante tutta la scrittura di Somewhere è stato invece un senso di spaesamento, uno smarrimento che però era anche carico di possibilità. Non avere una strada precisa da seguire non è necessariamente una cosa negativa. E’ più difficile orientarti, ma puoi arrivare a perlustrare territori musicali che non avevi mai raggiunto prima. E’ stato molto stimolante, ed anche più divertente, questo esercizio di scrittura di gruppo, anche dei testi.
Ritenete che giungere al testo definitivo sia molto impegnativo?
All’inizio avevamo seriamente valutato l’idea di fare un album completamente strumentale; alla fine sono rimaste solo tre tracce prive di parti cantate. Trovare linee vocali su strutture improvvisate è completamente diverso dallo ‘scrivere una canzone’. I testi sono diventati delle subordinate, dando voce alle sensazioni evocate dalle musiche, che erano praticamente tutte completate prima di iniziare a lavorare sulle parole.
Pensate che il risultato finale sia quello che vi aspettavate di ottenere?
Mmm…. non crediamo che qualcuno di noi avesse in mente cosa voleva ottenere quando abbiamo iniziato il lavoro. Il punto, anzi, era proprio questo.
Come vi ponete nel circuito indie nel quale operate?
Operiamo certamente nel circuito indie, se lo intendiamo come ‘senza contratti né contatti con le major discografiche’. Se lo intendiamo invece come fenomeno di moda e di costume, come potevano esserlo i paninari negli anno 80, siamo direi agli antipodi rispetto a quello che fanno i gruppi che vanno per la maggiore. Non è facile perché lavoriamo ai margini dei margini, seguiamo i nostri tempi, ci evolviamo assieme ai nostri interessi e non con le mode. Cerchiamo di fare cose che ci piacciono, di cui essere fieri e quando qualcuno si accorge di noi è una grossa soddisfazione. Va bene così.
Che riscontri avete ottenuto fino a questo momento?
Il disco è uscito da poco, stanno uscendo alcune buone recensioni e siamo contenti che la resa live del nuovo lavoro sia stata molto apprezzata.
Quali sono le vostre ambizioni?
Non abbiamo grosse ambizioni, fare concerti e dischi è quello che ci piace, lo stiamo facendo e vorremmo continuare a farlo finché ci darà piacere. Non siamo molto hungry per citare un celebre discorso… e per raggiungere la notorietà, anche nell’ambiente indipendente, bisognerebbe esserlo molto ma molto di più.
Come state promuovendo l’album? Avete una tournée in programma?
Per il momento siamo ancora alla rassegna stampa e abbiamo iniziato a programmare alcune date per la primavera/estate… in questo inizio 2013 abbiamo anche una nuova paternità nel gruppo e ci prendiamo i nostri tempi.
A tutti, come sempre, Vive le Rock!